La mia famiglia
Menegon, come lavoro ufficiale, guidava il camion della nettezza urbana. Tirava un milione quattrocentomila (1 400 000) puliti e, per la teoria secondo cui ognuno diventa invariabilmente il lavoro che fa, sembrava avesse sempre addosso qualcosa di prossimo a un rifiuto umido. Menegon non parlava né italiano né grezzo. Era smentato. Piccolo. Aveva occhiali con lenti ovali, scheggiati, una scopa di paglia al posto dei baffi, la riga in mezzo e una pettinatura a onda pigiata con brillantina o lubrificante per torni, non si è mai capito. Dalla bocca uscivano suoni che fratturavano verbi, comprimevano frasi, tagliavano le mani a parole senza colpa. La verità è che io, a trentasette (37) anni, penso che la morte rappresenti, per quanto mi riguarda, un fatto non plausibile. Vedo morire gli altri, piuttosto, questo sì, biologicamente, figurativamente, ho visto mille (1000) di queste morti premature, mille di questi dirigibili che si sgonfiano, perdono quota, vanno a morire da soli come i cani dietro le siepi, ne ho messi sotto a decine, ancora vivi, caldi come pezzi di spezzatino, come fossero lepri lapidati dai parafanghi delle macchine in corsa sulla triestina, che stanno per giorni piastrate come figurine Panini sull’asfalto. Osservo questi strani fenomeni fisici riconducibili alla morte altrui, come aurore boreali, son cose, penso, che non possono riguardare la mia famiglia immortale, la mia famiglia destinata ad accasarsi al carro d’oro e che, a una cert’ora, solo per scelta snob e non certo per dissoluzione fisica, deciderà di farsi traghettare in un infinito di anime illuminate a luci led.
[Francesco Maino, Cartongesso,Torino, Einaudi 2014, pp. 8-9]