Intelligenze
– Lei mi sembra molto intelligente, per un americano, – meditò la mia ospite.
[J. D. Salinger, Nove racconti, traduzione di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi 1962, p. 116]
– Lei mi sembra molto intelligente, per un americano, – meditò la mia ospite.
[J. D. Salinger, Nove racconti, traduzione di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi 1962, p. 116]
SFIGA
Dalle misere macerie lessicali del ’68 emerge, unico fiore superstite, questo geniale termine di italiano “volgare”. La “s” privativa esalta la cosa negata, massimo bene dunque dell’uomo, origine del mondo. Un vero e proprio omaggio stilnovistico, che il Boccaccio avrebbe sicuramente usato e con ogni probabilità lo stesso Alighieri.
[Carlo Fruttero, Sfiga, in Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi, con la collaborazione di Giorgio Vasta, Roma, Fandango 2008, pp. 176-177]
Nel libro di Carlo Fruttero Mutandine di Chiffon (Mondadori 2010, 219 pagine, 18 euro e 50), che ha come sottotitolo Memorie retribuite, c’è un capitolo intitolato Night of the Telegram nel quale si racconta delle reazioni che scatenò, negli uffici dell’Einaudi, dove Fruttero lavorava, la notizia dell’invasione russa d’Ungheria. Si resta un po’ stupiti, nel vedere che Fruttero, che quasi niente dice, in questo libro, della seconda guerra mondiale, dedica alcune pagine agli avvenimenti di Budapest, alla ricerca frenetica di notizie, alla convocazione di una segretaria russa, la signorina Dridso, per decifrare quel che dice Radio Budapest, alla scoperta che l’ungherese non è un lingua slava, alla successiva convocazione del germanista Cesare Cases per tradurre i notiziari di Radio Vienna, all’incertezza sul che fare che si prolunga fino a sera, quando Fruttero e Giulio Bollati sono invitati a cena in collina nella «bella villa di un’amica».
Quando sono ormai al dessert, arriva una telefonata di Giulio Einaudi per Bollati, e Bollati sparisce nello studio, e dopo un po’ si affaccia a chieder della carta, e poi sparisce ancora, e gli ospiti restano in sala da pranzo a chiedersi cosa si dicano di là Bollati e Einuadi, e la radio è accesa e parla di «combattimenti, barricate, morti, colonne di profughi e nient’altro». Quando Bollati, dopo quasi un’ora, ricompare, ha in mano dei fogli. È un lungo appello all’ONU, che Fruttero, «anglista ufficiale della maison», deve tradurre in inglese. Fruttero protesta, «un’iniziativa perfettamente inutile, persino ridicola, se permetti», ma non c’è niente da fare, gli tocca tradurlo lì, seduta stante, e comincia a confrontarsi con le «ferme prese di posizione», le «fiduciose speranze», i «valori democratici», il «ripudio d’ogni violenza», il «sangue innocente», il «comune sforzo per la patria», e così avanti «da un clichè all’altro». Fruttero prova a «tagliare, condensare, rifare, fondere, ribaltare», ma Bollati ripristina sempre la versione originale, «il padrone (ma se non sa l’inglese), il padrone, ti dico, controllerà, andrà su tutte le furie, deve essere il più letterale possibile». Alla fine, – scrive Fruttero – «mi arresi, e composi (a quel punto, anzi, con perversa scrupolosità) un testo di cui ancora oggi ho confusamente vergogna». Continua a leggere »
Chi ha avuto la passione della lettura sa che si tratta di una vera passione, feroce, esclusiva, come il gioco o il terrorismo, che fa sembrare insignificante qualsiasi altra cosa.
[Carlo Fruttero, Mutandine di chiffon, cit., p. 30]
C’è una vecchia canzone francese, penso di Charles Trenet, che faceva: “Quand une marquise / rencontre une autre marquise / qu’est-ce qu’elles se disent? / Des histoires de marquises”.
Così è anche dei nonni. S’incontrano e subito si mettono a raccontare storie di nipotini, il mio ha fatto questo, la mia ha detto quest’altro. L’oggettivo interesse della “storia” non ha la minima importanza, nessuno dei due si aspetta che l’altro vada in estasi. È piuttosto come una sorta di complicità sentimentale, come avviene tra ragazze che si bisbigliano confidenze amorose; e anche una quieta esibizione di appartenenza, come tra ex alunni di Oxford o Cambridge che portano la cravatta dello stesso college. In sostanza: io sto a sentire la piccola delizia che hai pronta tu e in cambio tu starai a sentire la piccola delizia che ho pronta io.
Ma conviene comunque tenere le orecchie aperte senza pregiudizi, perché talvolta la delizia è davvero una delizia. Il nonno seduto accanto a me mi racconta che la sua nipotina partecipava alla recita di fine anno della scuola, variazioni su Alice nel paese delle meraviglia.
Nonno: «E tu che parte fai?».
Bambina: «Faccio la cozza».
Nonno: «E cosa devi dire come cozza?»
Bambina: «Oh be’, sai, le cose che di solito dicono le cozze».
Carlo Fruttero, Mutandine di chiffon. Memorie retribuite, Milano, Mondadori 2010, pp. 226-227
Si tratta di un sorriso – crociani e strutturalisti abbiano pietà di me – dove confluiscono tutti i temi della sua opera di scrittore: contiene, in superficie, confusione, impaccio, una sorta di sbigottito deglutimento da recluta, che coprono appena una tremula richiesta di perdono, un’ammissione d’inettitudine a vivere, di completa vulnerabilità, e un fondo di sconfinata, disastrosa tenerezza verso le minime cose del creato, di comprensione per ogni concepibile debolezza, follia, bassezza e contraddizione umana. È un sorriso mite, soave, sincero, disarmante, e il suo effetto su chi lo vede per la prima volta è infallibile: ecco finalmente, si pensa, un Uomo Buono.
[Carlo Fruttero su Franco Lucentini, in Domenico Scarpa, Scavi nelle notizie, prefazione a Notizie degli scavi, cit., p. 103]