mercoledì 30 Ottobre 2019
Non mi diverto a scrivere. Mi diverto a leggere e studiare, e soprattutto a andare in giro per Latina – dal barbiere oppure al bar Mimì – a litigare con quelli che incontro. Ma a scrivere no, non mi piace. Scrivo per obbligo e per dovere. Dice: «E chi te l’ha imposta questa tassa, l’Agenzia delle entrate?» No. Peggio. I miei morti, la mia terra, il mio dàimon.
[Antonio Pennacchi, Camerata Neandertal, Balinbi+Castoldi 2014, 2019, quarta di copertina]
venerdì 5 Dicembre 2014
Una ventina di anni fa, a San Pietroburgo, ho conosciuto degli studenti di architettura di Como che mi eran rimasti molto simpatici e che di me dicevano che ero un solipsista, che era una cosa che non sapevo valutare molto bene se era un insulto o cosa perché non ero sicurissimo di cosa volesse dire. Dopo, una volta tornato in Italia, avevo guardato sul dizionario e avevo trovato che un solipsista era uno che credeva che la realtà si potesse conoscere solo attraverso l’esperienza, e aveva pensato che avevano ragione gli studenti di architettura di Como, ero un solipsista. Solo che chissà che dizionario ero andato a guardare, perché a guardarci adesso, sul dizionario, salta fuori che il solipsismo è una «teoria che assume il principio dell’egoismo e dell’utile individuale come norma etica fondamentale» (Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro); quindi, semplificando, un solipsista sarebbe uno che è po’ un egoista, che è una definizione che, se l’avessi letta venti anni fa, credo che avrei pensato che avevano ragione gli studenti di architettura, ero un solipsista. Ecco, questa faccenda del solipsismo mi è tornata in mente dopo che ho letto Camerata Neandertal (si scrive senz’acca), di Antonio Pennacchi, appena uscito per Baldini & Castoldi che, quando l’ho finito, mi ha fatto venire in mente un libro che ho scritto io che si intitola La vergogna delle scarpe nuove che è un libro che è uscito una decina di anni fa ed è forse il romanzo più complicato che ho scritto, che racconta un piccolo, dolorosissimo dramma, una separazione, ma ha una struttura anti-drammatica, mi verrebbe da dire, dal momento che si tratta di un romanzo che è strutturato così: c’è un prologo di 90 pagine, un romanzo che dura una riga e mezzo (e che posso citare integralmente: «È una cosa talmente evidente che non c’è bisogno di scrivere niente») e un epilogo che dura 120 pagine. Ecco, quest’ultimo romanzo di Pennacchi comincia concentrandosi, se si può usare questa parola per la prosa di Pennacchi, che è tutta centrifuga, divagatoria, deconcentrata, si potrebbe dire, ma nelle prime 46 pagine mi sembra evidente che Pennacchi stia trattando (prevalentemente) un mistero che riguarda il cranio dell’uomo di Neandertal che è stato trovato nel 1939 in una grotta del Circeo, mistero al quale Pennacchi aveva già dedicato un libro, Le iene del Circeo, uscito per Laterza nel 2010. Continua a leggere »