Perché lavorava
Lavoro per non lavorare, ma non ci sono ancora riuscito (a non lavorare).
[Marcello Marchesi, Autobiografia, in Agenda Marchesi, Milano, Bompiani 2015, p. LXIII]
Lavoro per non lavorare, ma non ci sono ancora riuscito (a non lavorare).
[Marcello Marchesi, Autobiografia, in Agenda Marchesi, Milano, Bompiani 2015, p. LXIII]
C’è un tradurre che vorrebbe tradurre in inglese Noi la farem vendetta, che è un libro che è uscito per Feltrinelli nel 2007, e per presentare la domanda a non so chi aveva bisogno di una mia biografia, e mi ha chiesto se quella su Wikipedia era giusta, e siccome non era giusta gliene ho scritto una io che copio qua sotto:
La biografia è poco interessante, per conto mio, comunque sono nato a Parma, nel 1963, mi sono diplomato da ragioniere nell’83, con un anno di ritardo (mi hanno bocciato due anni in quarta superiore e poi ho fatto due anni in uno), ho fatto il militare nell’84-85 (a Falconara Marittima e Piacenza), nel 1985 sono andato a lavorare, come ragioniere, in Algeria, ho lavorato, per l’Incisa di Parma, fino alla fine del 1986 in Algeria e dall’87 all’inizio dell’88 in Iraq, a Baghdad; nell’88 ho dato le dimissioni e mi sono iscritto all’università, lingue e letterature straniere, a Parma, mi sono laureato in russo nell’anno accademico ’93-94 con una tesi su Velimir Chlebnikov, nel ’95 ho fatto un po’ di lavori a vanvera, tipo facchino e cose del genere, son tornato qualche mese in Russia, nel ’96 ho ricominciato a lavorare all’estero, in Francia, a Nîmes, responsabile amministrativo per la posa di un gasdotto nel sud della Francia (artère du midi, si chiamava); nell’estate del ’96 ho dato le dimissioni, il 16 settembre del 1996 ho cominciato a scrivere, nel ’97 sono usciti i primi racconti, nel ’98 ho firmato il contratto per il primo romanzo che è uscito nel marzo del ’99 (Le cose non sono le cose).
La mia prima visita alla scuola la feci a sette anni. Una ragazzona di quindici anni, col cappello da sole e un vestito di cotonina come le altre, mi chiese se «usavo il tabacco», cioè se lo masticavo. Dissi di no, provocando il suo scherno. Mi accusò di fronte a tutti dicendo:
«Guardate: un ragazzo di sette anni che non mastica il tabacco!»
Dagli sguardi e dai commenti che le sue parole causarono mi accorsi di essere un degenerato ed ebbi terribilmente vergogna di me stesso. Decisi di emendarmi. Ma riuscii solo a sentirmi male; ero incapace di imparare a masticar tabacco. A fumare imparai benino, ma questo non mi attirò le simpatie di nessuno e rimasi un poveraccio, senza temperamento. Desideravo tanto che mi rispettassero, ma non fui capace di risollevarmi. I ragazzi hanno poca compassione per i difetti degli altri ragazzi.
[Marc Twain, Autobiografia, traduzione di Piero Mirizzi, Milano, Garzanti 2011 (3), pp. 21]
Webb si assunse il compito di ordinare i racconti. Terminata quest’opera, mi passò il risultato e con esso andai da Carleton. Mi avvicinai a un commesso, che si piegò ansiosamente al di sopra del banco e mi chiese che cosa volessi; ma quando apprese che ero venuto per vendere un libro e non per comprarlo, la sua temperatura calò di oltre trenta gradi e le armature di oro vecchio della volta della bocca mi si contrassero di un paio di centimetri lasciando cadere i denti. Chiesi timidamente il privilegio di parlare col signor Carleton e mi fu detto freddamente che si trovava nel proprio ufficio. Le difficoltà che seguirono mi scoraggiarono, ma dopo un po’ varcai la frontiera ed entrai nel sancta sanctorum. Ah, ora ricordo come vi riuscii. Webb mi aveva fissato un appuntamento con Carleton; diversamente quella frontiera non l’avrei mai varcata. Carleton si alzò e disse in tono brusco e aggressivo:
«Bene. Cosa posso fare per voi?»
Gli ricordai che ero lì in seguito a un appuntamento per offrirgli di pubblicare un mio libro. Cominciò a gonfiarsi e continuò a gonfiarsi e gonfiarsi e gonfiarsi fino a raggiungere le dimensioni di un dio di secondo o terzo grado. Poi eruppero gli zampilli dal suo profondo e per due o tre minuti non potei vederlo per la gran pioggia. Erano parole, solamente parole, ma cadevano così fittamente da oscurare l’atmosfera. Infine con la destra fece un gran gesto che abbracciò l’intera stanza e disse:
«Libri! Guardate questi scaffali. Ognuno è carico di libri che attendono di essere pubblicati. Credete che ne voglia degli altri? Scusatemi, no. Buongiorno.»
Trascorsero ventun anni prima che rivedessi Carleton. Soggiornavo allora con la famiglia a Lucerna allo Schweizerhof. Venne a farmi visita, mi diede cordialmente la mano e mi disse senza preambolo:
«Sono sostanzialmente uno sconosciuto ma ho al mio attivo un paio di distinzioni talmente enormi da darmi diritto all’immortalità; e cioè: rifiutai un vostro libro e perciò non ho rivali come il primo degli asini del diciannovesimo secolo.»
Era un bel discolparsi e glielo dissi; dissi anche che la mia era una rivincita in ritardo, però più dolce di qualsiasi altra; che durante quei ventun anni gli avevo tolto la vita, con la mia fantasia, parecchie volte ogni anno, e sempre in modi nuovi e più crudeli e disumani; ma che ora mi sentivo placato, rasserenato, felice, perfino esultante, e da quel momento lo avrei tenuto per mio caro e fedele amico e non lo avrei più ammazzato.
[Marc Twain, Autobiografia, traduzione di Piero Mirizzi, Milano, Garzanti 2011 (3), pp. 212-213]
Nacqui il 30 novembre del 1835 nel villaggio quasi invisibile di Florida, nella Contea di Monroe (Missuouri). I miei genitori si erano trasferiti nel Missouri poco dopo il 1830; non ricordo esattamente quando, perché allora non ero nato e di queste cose non mi interessavo. A quei tempi fu un viaggio lungo e dev’essere stato anche faticoso e difficile. Il villaggio aveva cento abitanti e io accrebbi la popolazione dell’uno per cento. È più di quanto abbiano potuto fare per un paese molti dei migliori uomini della storia. Sarà poco modesto da parte mia ricordarlo, ma è vero. Non si sa di nessuno che abbia fatto altrettanto: neanche Shakespeare.
[Marc Twain, Autobiografia, traduzione di Piero Mirizzi, Milano, Garzanti 2011 (3), p. 5 ]
È cominciato ieri, a Bologna, alla libreria Modo infoshop, il quinto trimestre della Scuola elementare di scrittura emiliana; ce ne sono stati, prima, altri tre a Reggio Emilia, dove la scuola è nata per iniziativa dell’Arci di Reggio Emilia, e un quarto, all’estero, all’Argentiera, in Sardegna, che è stato un trimestre intensivo, è durato tre giorni, e era dentro la prima edizione di un festival che si chiama Sulla terra leggeri.
Ieri sera c’era già un compito; funziona così, che uno si iscrive, e gli danno subito un compito, e il primo compito era: Descrivete voi stessi in un massimo di cinque righe.
Uno degli allievi ha risolto il compito in questo modo (cito a memoria):
Ho sempre pensato che chi si iscrive a un corso di scrittura sia un coglione. Io mi sono iscritto a un corso di scrittura.