Atomi

lunedì 20 Giugno 2016

Non credo di capire molto bene le cose che mi succedono intorno, un po’ perché non credo di essere molto intelligente, un po’ perché molte delle cose che mi succedono intorno sono cose troppo moderne, per me, che sono uno che, quando legge che hanno arrestato qualcuno per terrorismo, pensa alle Brigate Rosse.
“Ancora?” si chiede, e solo dopo, ma dopo del tempo, si accorge che no, il nome è lo stesso ma la cosa sembra che sia un’altra.
Il fatto è che le parole, nella mia testa, hanno delle radici meccaniche, novecentesche, io per esempio non ho mai capito le espressioni del tipo “realtà virtuale”.
«Se c’è una realtà» mi dico «come fa a essere virtuale?».
Delle volte per radio, io ascolto molto la radio, ogni tanto fanno sentire delle “dirette differire” che a me mi viene da dire, nella mia testa, «Se c’è una diretta, come fa a essere differita?» e questa espressione, diretta differita, mi sembra una cosa forse ancora più brutta della realtà virtuale ma so che mi sbaglio, perché, come dice Spinoza, non c’è niente di brutto, in natura, se ho capito quel che dice Spinoza, e la realtà virtuale, così come la diretta differita, sono anche loro, perlomeno come espressioni verbali, parte della natura.
Io questi malumori e queste intolleranze me li spiego anche con il mestiere che faccio, che io di mestiere scrivo dei libri e una cosa alla quale penso spesso, quando penso al mio mestiere, è una cosa che ha detto Bukowski una volta che gli hanno chiesto cosa serve per scrivere un libro e lui ha risposto che servon due cose, una macchina da scrivere e una sedia. E che delle volte è difficile trovare la sedia.
Ecco io ho l’impressione che il mestiere di quelli che hanno a che fare con l’arte consista anche, se non prevalentemente, in quei giorni lì che non riesci a trovare la sedia.
E allora uno, non so, io, per esempio, in quei giorni lì mi succede una cosa simile a quella che succedeva a uno scrittore russo che mi piace molto, Venedíkt Eroféev, che diceva che quando si ricordava che a casa non c’era niente da mangiare, scoppiava a ridere.
E così faccio anch’io quando mi accorgo che quel giorno lì non ho fatto niente, rido, e dopo che ho riso provo a far delle cose, ma piccole, che hanno un inizio e una fine, come mandare un libro per posta, piego di libri, o mettermi le scarpe per correre e andare a correre, o prendere le mie medicine dopo mangiato, o lavare subito i piatti, o esser sull’autobus e prenotar la fermata e sentire il rumore, «drin».
Che è un modo stupido, piccolo, grazie al quale la realtà virtuale, per un centesimo di secondo, diventa reale, tu premi il bottone, e senti il rumore, «drin».
Perché il mio mestiere, che, c’è un po’ da vergognarsi, ha a che fare anche quello con l’arte, è un mestiere che, secondo un altro russo che mi piace molto, Viktor Šklovskij, è una cosa che esiste «per far sì’ che la pietra sia pietra».
E io mi ricordo la prima poesia che ho letto di un altro russo che mi piace moltissimo (non c’è due senza tre), Velimir Chlebnikov, «Quando stanno morendo, i cavalli respirano, / quando stanno morendo, le erbe si seccano, / quando stanno morendo, i soli si spengono, / quando stanno morendo, gli uomini cantano delle canzoni», e io quando ho letto quella poesia lì, il posto dov’ero, la biblioteca Guanda di Parma, è diventata più posto, più biblioteca, più Guanda e Parma, intorno, è diventata più Parma.
Perché io capisco anche quello che ha scritto un pittore russo che mi piace moltissimo (dopo poi basta) Vladimir Šinkarëv, che ha scritto che «Quando penso che la birra è fatta di atomi, mi passa la voglia di bere», ma mi sembra che gli atomi non siano mica sempre gli stessi atomi, e, se è vero quel che dice un sociologo italiano che mi piace molto, Paolo Jedlowski, che «La qualità dell’ascolto, determina la qualità del racconto», dipende molto anche da noi, il tipo di atomi che ci circondano.

[uscito su Artribune]