Persone divertenti

lunedì 21 Giugno 2021

«Sono scrittori, persone divertenti».
«Non mi azzarderei a mettere nella stessa frase il sostantivo scrittori e l’aggettivo divertenti».

[Antonio Manzini, Vecchie conoscenze, Palermo, Sellerio 2021, p. 29]

Monasteri

giovedì 27 Settembre 2018

Ascanio Celestini, Matteo Bordone, Roberto Bui (Wu Ming 1), Maria Antonietta, Lisa Ginzburg, Alessandro Robecchi, Davide Enia, Fulvio Abbate, Daniele Giglioli, Roberto Camurri, Claudio Giunta, Monika Bulaj, Maurizio Bettini, Antonio Manzini, Riccardo Falcinelli, Dario Voltolini, Francesca Genti, Annalena Benini, Massimo Mantellini, Gaia Manzini, Francesca Manfredi, Andrea Mingardi, Martina Testa, Paola Gallo, Giorgio Biferali, Ginevra Lamberti, Marco Franzoso, Roberto Citran, Massimo Recalcati e Daniela Collu nelle biblioteche della provincia di Reggio Emilia dal 6 ottobre al 20 dicembre, a raccontare i libri (o le musiche, o i quadri) della loro vita per la rassegna Il monastero del proprio spirito, organizzata da Arci Reggio Emilia e Regione Emilia Romagna, immagine di Guido Scarabottolo, programma completo qui: clic
Il titolo viene da una cosa che Sergej Dovlatov ha scritto di Iosif Brodskij: «In confronto con Brodskij, – ha scritto Dovlatov – gli altri giovani anticonformisti sembrava che facessero un altro mestiere. Brodskij aveva creato un modello di comportamento inaudito. Non viveva in uno stato proletario, viveva nel monastero del proprio spirito. Non si opponeva al regime. Non lo considerava. E non era nemmeno sicuro della sua esistenza. Non conosceva i membri del Politburo. Quando sulla facciata del suo palazzo avevan montato un ritratto di sei metri di Mžavanadze (segretario del partito comunista georgiano), Brodskij aveva detto: – Chi è? Sembra William Blake».

Parlare così

venerdì 6 Ottobre 2017

Dopo aver letto il suo ultimo romanzo, che si intitola Pulvis et umbra, e è appena stato pubblicato da Sellerio, sono andato a vedere Antonio Manzini che lo presentava a Bologna, alla libreria Ambasciatori, e lì, tra me e me, mi son detto che, un po’ mi dispiace, ma a me piace, Manzini. Io, devo essere strano, ma mi costa un po’, confessare che una cosa mi piace. Quando qualcosa non mi piace, un libro, o una canzone, o un film di cui parlano tutti e che tutti dicono che sono un libro, o una canzone, o un film bellissimi ecco, io, se li leggo, o li ascolto, o li guardo e poi non mi piacciono, io devo dire che quando poi lo dico, o lo penso, «Non mi è piaciuto», c’è una specie di piccola, infantile, stupida soddisfazione. Come se fosse un pregio, il fatto che quel libro, o quella canzone, o quel film, non mi piacessero, come se indicasse una certa mia superiorità rispetto alla massa che, essendo massa, è della gente che han delle teste che non le mangiano neanche i maiali, come dicono a Parma.
Io mi sento così bene, quando dico, con una punta di soddisfazione «Non mi è piaciuto», che delle volte son più contento di leggere un libro che credo che sarà brutto, invece di uno che mi immagino che sarà bello.
Invece Manzini, che piace alla massa, perché vende tanto, come si sa hanno fatto anche una serie televisiva, dai suoi romanzi, che ha avuto molto successo, ecco io devo riconoscere che Manzini piace anche a me: sia i libri che scrive sul suo commissario Rocco Schiavone (che non è un commissario ma un vicequestore e che credo sia uno dei tutori dell’ordine meno affezionati all’ordine che mi sia capitato di leggere, se è vero, come è vero, che, tra le altre cose, appena arriva in ufficio, al mattino, si fa una canna), che i libri dove Schiavone non c’è, come Sull’orlo del precipizio, che Manzini ha pubblicato per Sellerio nel 2015 e che è una specie di distopia nella quale si immagina un futuro del mondo editoriale italiano nel quale le case editrici saranno impegnate, tra le altre cose, nella traduzione dei classici, non solo di quelli stranieri, anche di quelli italiani.
L’inizio dei Promessi sposi, per esempio, «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume» in quel vecchio libro di Manzini diventa: «Quel pezzo di lago in provincia di Como (città di 85 mila abitanti, situata in Lombardia dove nacquero Plinio il vecchio, Plinio il giovane e Alessandro Volta, l’inventore della pila), che davvero non si incula nessuno, sperduto in mezzo a montagne lunghe lunghe, pieno di insenature e golfi, si restringe all’improvviso e, toh, sembra quasi un fiume!». «Lo sente? – dice il redattore immaginario di Manzini – La prosa diventa moderna, pochi fronzoli, informazioni utili come se il testo fosse su internet e cliccando Como rilasciasse dettagli. Vuole che le legga l’incontro fra i coatti e don Abbondio?». «I coatti?», chiedono al redattore. «I Bravi, dai. – risponde lui – “Questo matrimonio non s’ha da fare…” Ma chi parla così? Ora, invece, senta che meraviglia: “Prova a fa’ sto matrimonio e ti rompiamo il culo, bello”. È un’altra cosa. È così che i giovani si avvicinano alla letteratura».
Adesso, mi rendo conto che quel redattore di Manzini è un personaggio paradossale, ma una delle cose che mi piacciono, nei libri di Manzini, è la capacità di maneggiare una lingua concreta, vicina a quella che parliamo tutti i giorni, una lingua che non ti fa mai pensare: «Ma chi è che parla così».
Forse per questo ci sono rimasto male quando, a pagina 40 di Pulvis et umbra, ho trovato un personaggio che si volta «attratto dal rumore degli pneumatici» di una macchina della polizia.
“Gli pneumatici?”, ho pensato, “ma chi è che parla così?”.
La sera che ero andato a vedere Manzini che presentava il suo libro, avevo poi trovato, sul sito di Repubblica, un titoletto che diceva «Tifoso provoca Borriello: “Fai meno sesso”», e sotto il titolo c’era un video nel quale si vedeva il pullman della Spal, la squadra dove gioca Borriello, e si sentiva la voce di un tifoso che diceva: «Borriello, scopa di meno».
Mi viene in mente un ragazzo il cui primo romanzo stava per essere pubblicato da una grande casa editrice italiana, e le prime parole di quel primo romanzo erano: «Cazzo, la pula!». Che era un inizio chiaro, mi viene da dire, che però non dev’essere piaciuto molto alla casa editrice che quel romanzo doveva pubblicare se è vero che avevano proposto all’autore di cambiare quell’inizio in «Cribbio, la madama!». Che è quasi la stessa cosa, ma è una cosa completamente diversa. Come fare sesso e scopare.
Allora, se credo che Manzini non abbia tutti i torti quando, a chi gli rimprovera di aver messo in scena un commissario, anzi, un vice-questore, che si fa delle canne, ribatte che le canne dovrebbero smettere di farsele quelli che fanno i palinsesti della Rai, che mettono in prima serata dei gialli ambientati in un posto (che, se non ho capito male, è Gubbio) dove tutti i misteri vengono risolti da un prete in bicicletta, mi piacerebbe però che lui tenesse a freno i redattori che lavorano sui suoi libri e lasciasse gli articoli come li diciamo per strada: i pneumatici.
Altrimenti, sarebbe il caso di rilanciare la proposta di Aldo Buzzi, che in un dialogo dentro il suo La lattuga di Boston scrive: «Sto lavorando anche a un’altra proposta per punire tutti quelli che invece di ‘i gnocchi’ scrivono ‘gli gnocchi’. Non c’è nessuna difficoltà a pronunciare i gnocchi, come non ci sono difficoltà a pronunciare ignoto, ignorante, ignobile. /…/ «Ahi! Ahi! E chi introduce nei cervelli queste assurdità?».
«Sono certe maestre… le figlie di quelle che un tempo insegnavano a scrivere: ‘carne in iscatola’. Mi ricordo una carne in iscatola che era rimasta nelle prime pagine di Tempo di uccidere di Flaiano. Ho sostituito l’iscatola con una normale scatola e Flaiano mi ha ringraziato. La saluto. Parto. Vado in Isvizzera… Non si agiti. Sto scherzando. Buon lavoro».

[Uscito ieri sulla Verità]

Tre parole italiane

mercoledì 27 Settembre 2017

Come in Pulvis et umbra di Antonio Manzini, anche nel libro di Velibor Čolić Manuale d’esilio ho trovato l’articolo gli davanti a pneumatici (a pag. 31: «Il mio animo è un lupo solitario che morde gli pneumatici delle vostre automobili di lusso», la traduzione è di Ileana Zagaglia).
A me questa cosa trasmette l’idea di una lingua scritta distante, e superiore, più raffinata, rispetto alla lingua parlata, che è un’idea che mi sembra sbagliata, triste, e molto diffusa nelle redazioni di alcune case editrici, pazienza.
E anche qui, come in Pulvis et umbra, di Antonio Manzini, ho trovato che si usa la parola Intonso per dire intatto (qui «Due cartoline di Zagabria intonse», in Manzini «Il letto intonso»).
Anch’io pensavo che volesse dire intatto, poi uno dei partecipanti al Repertorio dei matti della città di Genova mi ha fatto notare che intonso significa «Che ha i capelli e la barba lunghi e folti, non tosato», oppure, di un libro, «che ha i fogli non ancora tagliati», oppure, di una ragazza, «illibata».
E allora, da allora, se devo dire Intatto, faccio l’originale, dico Intatto.

Ma perché?

mercoledì 13 Settembre 2017

poi si girò, attratto dal rumore degli pneumatici

[Antonio Manzini, Pulvis et umbra, Palermo, Sellerio 2017, pp. 40-41]

L’editing dei Promessi sposi e di Guerra e pace

lunedì 21 Dicembre 2015

Antonio Manzini, Sull'orlo del precipizio

Il libro di Antonio Manzini Sull’orlo del precipizio (Sellerio 2015, 115 pagine, 8 euro), comincia con un celebre scrittore, Giorgio Volpe, che consegna il suo ultimo romanzo alla sua casa editrice proprio nel momento in cui la sua casa editrice viene comprata dal gruppo Sigma, che ha comprato contemporaneamente tutte le principali case editrici italiane; quando arriva il momento dell’editing, invece che con Fiorella, la redattrice con la quale di solito lavora ai suoi testi, Volpe è costretto a avere a che fare con Aldo e Sergej, due redattori che, prima del suo libro, si sono occupati dei Promessi sposi e di Guerra e pace. Di Guerra e pace hanno fatto un’edizione senza le parti noiose, «senza Waterloo, più corto. Solo 300 pagine». Dei Promessi sposi hanno fatto una traduzione pensata per «avvicinare i ragazzi alla letteratura e usare una lingua che gli faccia amare i libri». Allora l’inizio: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume» diventa: «Quel pezzo di lago in provincia di Como (città di 85 mila abitanti, situata in Lombardia dove nacquero Plinio il vecchio, Plinio il giovane e Alessandro Volta, l’inventore della pila), che davvero non si incula nessuno, sperduto in mezzo a montagne lunghe lunghe, pieno di insenature e golfi, si restringe all’improvviso e, toh, sembra quasi un fiume!». «Ecco, – dice il redattore – lo sente? La prosa diventa moderna, pochi fronzoli, informazioni utili come se il testo fosse su internet e cliccando Como rilasciasse dettagli. Vuole che le legga l’incontro fra i coatti e don Abbondio?». «I coatti?», chiede Volpe. «I Bravi, dai. “Questo matrimonio non s’ha da fare…” Ma chi parla così? Ora, invece, senta che meraviglia: “Prova a fa’ sto matrimonio e ti rompiamo il culo, bello”. È un’altra cosa. È così che i giovani si avvicinano alla letteratura». Sergej sta lavorando anche a una nuova edizione di Anna Karenina in cui Anna non finisce sotto il treno, ma c’è, in qualche modo, un lieto fine. Volpe, che all’inizio non è tanto contento dell’andiamo che ha preso la cosa, viene messo di fronte a dei dati concreti. Il suo primo romanzo ha venduto 560 mila copie, il suo secondo romanzo 760 mila, il suo terzo romanzo 180 mila. «Questa ciclotimia – dicono a Volpe – non è sopportabile». Nei suoi prossimi libri, gli dicono, bisogna unificare i codici prodotto, come una fabbrica qualsiasi. Come la Ferrero. «C’è un codice prodotto, per la Nutella, diciamo, ed è sempre lo stesso. E ogni anno prevedono quante ne venderanno. Così di Ferrero Rocher, così di Mon Chéri. Sanno già quanti pezzi venderanno perché il prodotto è sempre quello. Non cambia mai». A Volpe chiedono la stessa cosa. Di scrivere libri con sempre gli stessi ingredienti in modo da non scendere mai sotto le 700 mila copie.
Il panorama editoriale immaginato da Manzini ricorda un racconto del 1953 dello scrittore britannico Roal Dahl, The Great Automatic Grammatisator, tradotto da Massimo Bocchiola come Lo scrittore automatico (e disponibile nel volume Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra, Guanda editore).
Il protagonista è un informatico appassionato di letteratura, Adolph Knipe, che inventa una macchina per scrivere i romanzi; c’è proprio il volante, le marce, il pedale della suspence, quello della passione, e se uno ci monta sopra, gira la chiavetta e guida un po’, poi alla fine di sotto salta fuori il libro rilegato.
«Sono previste anche molte piccole raffinatezze» dice Knipe al suo principale, il signor Bohlen. «“Le vedrà quando studierà il progetto nei particolari. Per esempio, è previsto un espediente che usano quasi tutti gli scrittori, quello di inserire in ogni racconto almeno una parolona lunga e incomprensibile. Questo fa pensare al lettore che l’autore sia molto dotto e intelligente. Perciò la macchina farà automaticamente lo stesso. Avremo un intero stock di parole lunghe memorizzate appositamente per questo scopo”. “Dove?” – chiese Bohlen. – “Nella sezione ‘memoria parole”, rispose epesegeticamente Knipe».

[Uscito ieri su Libero]

Mamme in rivolta

venerdì 6 Febbraio 2015

antonio manzini, non è stagione

Siccome vorrei scrivere un giallo, è un po’ di tempo che leggo dei gialli e l’ultimo che ho letto è uscito per Sellerio e l’ha scritto Antonio Manzini e si intitola Non è stagione e ci ho trovato delle cose che mi hanno sorpreso anche in rapporto alle cose che stavo facendo nella mia vita. L’altro giorno, per esempio, ero a Cantù a fare una lettura, fuori da un’edicola c’era uno strillo del Giornale di Cantù, quelle pagine pubblicitarie che riportano i titoli principali dei giornali e c’era scritto: «L’accusa. Fumano canne nel parco: mamme in rivolta», che mi è sembrato un titolo stranissimo anche perché proprio quel giorno avevo cominciato a leggere Non è stagione e aveva scoperto che Rocco Schiavone, il vicequestore protagonista del libro, quando arriva nel suo ufficio, al commissariato di Aosta, la prima cosa che fa, al mattino, si accende una canna. Dopo, alla sera, a Cantù, ho chiesto a uno che lavora in comune di dirmi cos’era successo e lui mi ha detto che le mamme, erano loro, che si facevan le canne e che, con questo freddo, erano in rivolta perché volevano un posto tranquillo per farsi le canne in pace, ma secondo me scherzava, e pensare di vivere in un posto dove si può immaginare un vicequestore che ha questa abitudine che tutti i giorni fuma marijuana e, contemporaneamente, dei ragazzi che si fanno le canne nei giardini pubblici di Cantù scatenano una rivolta delle mamme, ecco per me questo è stato un bel pensiero, non so perché, credo mi piacciano le contraddizioni. Continua a leggere »