Stare a casa ancora
Non sono mai riuscito a perdere la mia vecchia convinzione che viaggiare rimpicciolisca la mente. Per evitare che accada un uomo deve per lo meno fare un duplice sforzo di umiltà morale e di vigore immaginativo. C’è qualcosa di davvero toccante e anche di tragico al pensiero del turista spensierato, che sarebbe potuto rimanere nella sua casa di Hampstead o Surbiton ad adorare i lapponi, ad abbracciare i cinesi, e a stringere al proprio cuore gli uomini della Patagonia, se non fosse stato per quel suo cieco impulso suicida di andare a vedere che aspetto avessero. Non si tratta di un nonsenso; si tratta ancor meno di quella sorta di stupidissimo nonsenso che è il cinismo. Il vincolo umano che egli sente stando a casa non è un’illusione. Al contrario, è piuttosto un’intima realtà. L’uomo è dentro gli uomini. Sul serio tutti abbiamo dentro chiunque. Invece viaggiare significa abbandonare l’intimo e portarsi pericolosamente vicino all’esterno. Fintanto che quell’uomo pensa agli altri uomini in astratto, come nude figure al lavoro intarsiate in qualche fregio antico, semplicemente come coloro che faticano e amano i loro figli e muoiono, egli rivolge il suo pensiero alla loro verità fondamentale. Recandosi a vedere le loro inconsuete abitudini e tradizioni li sta invitando a camuffarsi dietro maschere e costumi bizzarri. Molti uomini moderni che si occupano di relazioni internazionali parlano come se uomini di nazionalità differenti dovessero solo incontrarsi, mescolarsi e comprendersi reciprocamente. In realtà quello è il momento del pericolo estremo – il momento in cui si incontrano. Può far venire i brividi.
[Gilbert K. Chesterton, Quello che ho visto in America, traduzione di Annalisa Teggi, Torino, Lindau 2011, pp. 7-8]