Alcuni i quali

martedì 3 Agosto 2021

Ci sono alcuni i quali, al primo entrar nella vita, s’infilano addosso il primo giogo che capita e onestamente ci lavorano sotto fino al temine della vita.

[Lev Tolstoj, I cosacchi, trad. Agostino Villa, Macerata, Quodlibet 2021, p. 19]

Il ragionier Berlaga

giovedì 28 Novembre 2019

Uno era il ragionier Berlaga. Per evitare l’epurazione era fuggito in manicomio. Il cognato aveva elaborato una strategia per rendere credibile la sua pazzia. Aveva letto un libro sugli usi e costumi dei malati di mente e avevano stabilito che la forma migliore di pazzia era la mania di grandezza. “Non dovrai fare altro” gli aveva detto il cognato “che gridare ogni tanto Io sono Napoleone, oppure Io sono Emile Zola, oppure Io sono Maometto”. Al ragionier Berlaga, potendo scegliere, gli sarebbe piaciuto essere il Vicerè delle Indie e per rendere più credibile la sua pazzia di era strappato la camicia e si era versato sulla testa una boccetta di inchiostro. Agli infermieri del manicomio, chiamati dal cognato, urlava a gran voce “Io sono il Vicerè delle Indie, dove sono i miei nahib e maharajà, dove sono i miei abreki, i miei kunaki i miei elefanti?”. E fu portato subito in manicomio. Il cognato gli aveva consigliato di urlare spesso “io sono il Vicerè delle Indie”, tanto che creò dello scompiglio e fu rinchiuso in isolamento con tre malati irrequieti come lui: uno che credeva di essere un cane, e camminava a quattro zampe e abbaiava, un altro omone baffuto che credeva di essere una donna nuda ed infine il terzo che credeva di essere Giulio Cesare e gridava “Anche tu Bruto si sei venduto ai bolscevichi!”.
Che paura gli venne al ragionier Berlaga, quando gli si avvicinò l’uomo cane, che invece di addentarlo lo guardò con interesse e venne fuori che conosceva suo padre e poi che i tre non erano mica matti ma come il ragionier Berlaga stavano fingendo. Avevano tutti e tre degli ottimi motivi per essere lì, chinon aveva pagato certi debiti e quindi rischiava di fare un viaggetto al Nord, chi rischiava l’arresto per furtarelli vari, ma la ragione più valida ce l’aveva Giulio Cesare che preferiva i matti alla Russia dei
soviet, perché solo in manicomio, diceva, c’era una certa libertà personale, c’era libertà di coscienza e pure di parola. E poi non si doveva lavorare e non si doveva sempre stare a parlare di socialismo.

[Dal repertorio dei matti della letteratura russa, questo matto è di Morena Sartori]

Piace

martedì 12 Dicembre 2017

– Piace che abbia ucciso suo padre?
– Piace, piace a tutti! Tutti dicono che è una cosa tremenda, ma nell’intimo piace loro tremendamente. Son io la prima, che mi piace.

[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 766]

Pan Musjalovič effettivamente

giovedì 7 Dicembre 2017

Pan Musjalovič, effettivamente, mandava una lunghissima e (al solito suo) fioritissima lettera, in cui chiedeva che gli si facesse un prestito di tremila rubli. Alla lettera era accluso un biglietto di ricevuta, in cui si obbligava a restituire la somma in tempo di tre mesi: e sotto la ricevuta aveva apposto la firma anche pan Vrublevskij. Di lettere simili, e sempre munite di simili ricevute, Grušen’ka ne aveva già ricevute in gran numero dal suo «ex». La storia era incominciata fin da quando Grušen’ka era guarita, due settimane or sono. Essa aveva saputo, tuttavia, che nel corso della sua malattia i due pan eran venuti a informarsi della sua salute. La prima lettera ricevuta da Grušen’ka era una letterona su carta di gran formato, sigillata con un gran timbro con tanto d’iniziali, terribilmente oscura e arzigogolata, tanto che Grušen’ka, lettane soltanto mezza, l’aveva buttata via senza averci capito un’acca. Eppoi, altro che a lettere aveva da pensare allora. A questa prima, era seguita l’indomani una seconda lettera, nella quale pan Musjalovič chiedeva in prestito duemila rubli, a scadenza brevissima. Anche quest’altra lettera era stata lasciata da Grušenka senza risposta. Era seguita quindi tutta una serie di lettere, in ragione d’una per giorno, tutte ugualmente solenni e pretenziose, ma nelle quali la somma richiesta in prestito gradatamente s’era venuta abbassando, riducendosi a cento rubli, a venticinque, a dieci: e finalmente, un bel giorno, Grušen’ka aveva ricevuto una lettera, in cui i due pan le chiedevano un rublo solo, e accludevano la ricevuta, sotto la quale entrambi avevano apposto le loro firme.

[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 745]

Una zoppa, precisamente

giovedì 30 Novembre 2017

– Dunque voi avete sposato una zoppa? – esclamò Kalganov.
– Una zoppa, precisamente. Il fatto è che loro, sul momento, s’accordarono tutt’e due a farmi un imbroglietto, e mi nascosero la cosa. Io credevo che lei saltellasse… Continuava sempre a saltellare, e quindi pensavo che facesse così per la contentezza…
– Per la gioia di diventar vostra moglie? – stridette, con un’infantile acutezza di voce, Kalganov.
– Gia, eh? per la gioia. E invece, ahimè, venne a scoprirsi che era per tutt’altro motivo.

[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 555]

Smerdjakov

giovedì 23 Novembre 2017

Grigorij gl’insegnò a leggere e a scrivere, e quando toccò i dodici anni, si fece a insegnargli la Storia Sacra. Ma l’impresa andrò subito in fumo. Bruscamente, la seconda o al massimo la terza lezione, il ragazzo di punto in bianco si mise a ridacchiare.
– Chi hai? – domandò Grigorij, sbirciando severo di sotto agli occhiali.
– Oh, niente. La luce, il Signore Iddio, l’ha creata il primo giorno: e il sole, la luna e le stelle, il quarto giorno. O allora di dove veniva la luce, il primo giorno?

[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 165]

Rificolona

lunedì 20 Novembre 2017

A pagina 161 dell’edizione Einaudi dei Fratelli Karamazov c’è scritto «In casa di queste due rificolone che sono ora proprietarie di qui, c’è una stanzetta affittata a Foma» (la traduzione è di Agostino Villa).
Siccome non so cosa vuol dire Rificolona, ho cercato in rete e ho trovato questo:

«”Ona, ona, ona
Oh che bella rificolona!
La mia l’è co’ fiocchi
e la tua l’è co’ pidocchi.
E l’è più bella la mia
di quella della zia”
Chi da bambino non ha mai cantato questa canzoncina, saltellando con la cerbottana in bocca alle prese con i pallini di stucco, mirando alle rificolone degli altri bambini?» (il sito è questo clic).

Siccome non ho mai cantato questa canzoncina, saltellando con la cerbottana in bocca alle prese con i pallini di stucco, mirando alle rificolone degli altri bambini, ho cercato sul dizionario, e adesso mi sembra che rificolona significhi palloncino, fatto con carta colorata e illuminato internamente da una candela, fissato in cima a una canna e portato in giro durante alcune feste popolari, e, in senso figurato, e spregiativo, Donna pacchiana, truccata o acconciata in modo ridicolo (dal dizionario Hoepli).
La parola usata da Dostoevskij è шлюх, che è il genitivo plurale di шлюха, che il dizionario Zanichelli dice che significa Troia, puttana.
È Mitja Karamazov, che la dice.
A me piace di più rificolona, ma se dovessi tradurlo, non lo tradurrei rificolona, credo.

Sempre ogni tanto

lunedì 20 Novembre 2017

E così, tu voi andartene a star coi monaci? Ma sai, per me è un dispiacere, Alëša, davvero: io, credimi, mi sono affezionato a te… Del resto, sarebbe proprio l’occasione che ci vuole: pregherai anche per noi peccatori, che davvero, standocene qui, abbiam troppo peccato. Era una cosa che pensavo sempre: chi ci sarà, che pregherà per me? Si troverà al mondo un uomo simile? Caro il mio piccino, in questo, sai?, io sono un terribile stupido: tu forse non ci crederai? Un terribile stupido! Vedi, per quanto in questo io sia uno stupido, ci penso però, sempre ci penso… ogni tanto, s’intende, mica sempre… Non è mica possibile, penso, che i diavoli con i loro raffi si scordino di tirar giù me, quando morrò. Ed ecco che mi viene in mente: i raffi? e di dove li prendono? di che son fatti? sono di ferro? ma allora dove li forgiano? e che, c’è qualche fabbrica, dunque, lì da loro? In questi conventi, vedi, i religiosi credono con sicurezza che l’inferno, per esempio, abbia tanto di soffitto. Ma io sono qui pronto a credere all’inferno, purché non si parli di soffitto: esso ne viene a risultare, allora, più fine, direi, più progredito, alla luterana, insomma. Ma in sostanza non è poi la stessa cosa, col soffitto o senza soffitto? Ecco, ecco dove sta la maledetta questione! Già, ma se il soffitto non c’è, allora non ci son neppure i raffi. E se non ci sono i raffi, in tal caso tutto va a rotoli: di nuovo si cade nell’inverosimile: chi è allora, che mi tira giù coi raffi, giacché se io non fossi tirato laggiù, che ne sarebbe allora, dove starebbe la giustizia a questo mondo? Il faudrait les inventer, questi raffi, apposta per me, per me solo: giacché se tu sapessi, Alëša, che svergognato sono io!…

[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, pp. 33-34]

Il cane e la sua ombra (favola)

lunedì 23 Gennaio 2017

lev-tolstoj-i-quattro-libri-di-lettura

Un cane stava attraversando un fiume su una passerella, portando fra i denti un pezzo di carne. Vide se stesso riflesso nell’acqua e credette che lì sotto ci fosse un altro cane, intento come lui a portare in bocca un pezzo di carne. Così lasciò andare il suo pezzo e si lanciò di sotto per strappare quello dell’altro cane. Di quella carne, però, non c’era neppure l’ombra, e la sua venne portata via dalle acque.
E il cane restò a bocca asciutta.

[Lev Tolstoj, I quattro libri di lettura, traduzione di Agostino Villa, Milano, Isbn 2013, p. 64]