Sul riposo
Mi hanno chiesto di fare un discorso, a Parma, per il primo maggio, festa del lavoro. Non è la prima volta che mi chiedono di parlare il primo maggio, e quando mi succede, tutte le volte, mi vien la tentazione di far l’elogio del riposo.
E mi vien sempre in mente che, nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento che ho letto, una delle espressioni italiane che ho trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che dice «In italiano nel testo», è: il dolce far niente.
Che è un’espressione che abbiamo inventato noi e che ha fatto il giro del mondo e a me vien da dire che ci sarà un motivo.
Qualche anno fa, nella biblioteca Salaborsa di Bologna, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti: «Non lavorate mai», c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia. E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero: «E chi ci ha mai pensato». E io mi ricordo avevo pensato “Ecco vedi”.
Io, la tentazione che ho, quest’anno, è di dire che per me, la costituzione italiana, il primo articolo, «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro», io lo cambierei in «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul riposo», mi sembra bello e più adatto ai tempi, perché quella cosa lì della Repubblica fondata sul lavoro, aveva probabilmente senso negli anni ’40, oggi non lo so.
Che io, quando penso al lavoro mi viene in mente una cosa che ho scritto anche dentro un romanzo, e dev’essere una cosa che mi sembra che sia interessante perché tutte le volte che ho l’occasione di dirla la dico, e la dirò anche il primo maggio, a Parma, probabilmente, e consiste nel fatto che quelli che son nati negli anni ‘20, e che avevan vent’anni negli anni ‘40, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati; quelli che son nati negli anni ‘30, e avevan vent’anni negli anni ‘50, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire: quelli che son nati negli anni ‘40, e che avevan vent’anni negli anni ‘60, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro; quelli che son nati negli ‘50, e che avevan vent’anni negli anni ‘70, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni ‘60 e che avevamo vent’anni negli anni ‘80 e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
A me sembra che noi, nati negli anni ‘60 (io sono del ‘63) siamo stati la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e il nostro strumento, per entrare nel mondo, non era la forza di volontà, o l’entusiasmo, era la disperazione.
Quando poi è uscito il libro dove avevo scritto questa cosa, qualcuno mi ha chiesto cosa pensavo di quelli che eran nati negli anni ‘70, negli anni ‘80 e negli anni ‘90, e io ho risposto che mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, che noi quando lavoravamo c’era questa abitudine, questa convezione che ci pagavano; loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano. E questa è proprio una cosa che io non la capisco.
E poi, per finire, che in qualche modo bisogna finire, io credo che il primo maggio, sul palco di Parma, dirò che io, a pensarci, i momenti più belli della mia giornata sono quando lavoro, sono quando metto le mani sulla tastiera di un computer e faccio andare i polpastrelli, quando ho un romanzo che mi cambia sotto le mani e che diventa una cosa inaudita, e credo che finirò dicendo che, nonostante tutte le mie convinzioni la mia giornata, tutte le mie giornate mi dicono che è una cosa evidente, che il lavoro è l’unica salvezza, che l’unica salute è diventare matti. Buongiorno.
[Uscito ieri su 7 del Corriere della Sera]