Ammesso

sabato 24 Novembre 2012

Tolstoj, in un saggio di qualche decennio più tardi, rispetto a Che fare, un saggio del 1903, intitolato Agli uomini politici, in quel saggio lì Tolstoj scrive

Poiché gli uomini che detenevano il potere si sono sempre lasciati depravare da tale loro potere e hanno perciò impiegato quest’ultimo non tanto per il bene comune, quanto piuttosto per il loro bene personale, è sempre avvenuto che il nuovo potere finisse per essere tale e quale al precedente, e spesso ancora più ingiusto.

E

Se il potere deve esser distrutto, scrive poi Tostoj, ciò non potrà avvenire in nessun caso mediante un ricorso alla forza, giacché un potere che distrugga un potere rimane pur sempre un potere, ma ciò potrà avvenire unicamente grazie al chiarirsi, negli uomini, della consapevolezza del fatto che il potere stesso sia inutile e dannoso, e che gli uomini non debbano né sottomettervisi, né prendervi parte.

E dopo conclude, Tolstoj, che

vi è un solo mezzo di influire sulla vita degli uomini, perché divenga buona: vivere noi stessi una vita buona. E perciò anche l’attività di quanti desiderano contribuire all’instaurarsi di una vita buona tra gli uomini può e deve concentrarsi unicamente nell’interiore perfezionamento di sé, nel concretare ciò che nel Vangelo è espresso con le parole «Siate perfetti come lo è il Padre vostro che è nei Cieli».

E c’è un altro scrittore, non dell’ottocento, del novecento, e non russo, americano, non Tolstoj, Kurt Vonnegut, che in un libro del 2007, Un uomo senza patria, scrive:

Joe, un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!».

Essere buoni? Ma non si vergognano, Tolstoj e Vonnegut, non hanno paura di rendersi ridicoli, a dire, e non solo a dire, a scrivere, perfino, che bisogna essere buoni?

Come fanno a dire una cosa del genere? Cioè come fa, Tolstoj, a dire che il modo di cambiare le cose, di beffare il potere, di sovvertire il corso della storia, non è prendere il potere, non è sostituirsi, a quel potere, come penseremmo noi tutti, ma essere buoni?

Perché Tolstoj, in sostanza, dice quello, mi sembra, cioè dice che il modo in cui ci comportiamo noi, tutti i giorni, in tutte le occasioni, apparentemente insignificanti della nostra vita, non è indifferente, determina delle conseguenze; se noi, mi sembra che dica Tolstoj, se noi esseri ridicoli ci mettiamo a seguire quella ridicola unica regola, che potremmo chiamare la regola di Vonnegut, essere buoni, il rischio che corriamo, secondo Tolstoj, è di produrre un cambiamento qualitativo che non comporti la semplice sostituzione di un potere a un altro potere, che è una cosa che non serve a niente, ma che comporta proprio un cambiamento di paradigma, ammesso che il paradigma si possa cambiare.

[Parte dell’elogio del ridicolo che esce domani in un libretto di un centinaio di pagine allegato al sole 24 ore che contiene due discorsi (questo, che si intitola E noi? e un altro sul Risorgimento che si intitola Garibaldi fu ferito)]