Aleksandr
Ma gli articoli dei loro giornali, i giornalisti, quand’è che li scrivono? Son sempre in televisione a parlare. E scrivere? Mio babbo dice che sono io, che non capisco, secondo me sono loro. Quand’è che li scrivono? Son sempre in televisione a parlare. Li scrivon di botto, cinque minuti, così, di nascosto? Aah, vi sembra un bel modo, di fare? Mio babbo dice che sono io, che non capisco. Secondo me sono loro. Anche se io, non capire, non capisco davvero. Non mi ci trovo. Mio babbo dice «È normale». «Ci vuole pazienza», dice. Io, pazienza, mi sembra, ce l’ho, ma non mi ci trovo. Fai il giornalista? Scrivi. Io, quando sono andato a vendemmiare, vendemmiavo. Andavo mica in televisione a parlare. Dopo poi sarò io, eh? Mio babbo dice che anche lui, quand’era piccolo, non ci si trovava. Che lì, a parte che io, ci ho quasi vent’anni, altro che piccolo. Sono anche alto due metri e zero due. Che lui, invece, mio babbo, è uno e settanta. E mi dice a me che son piccolo. Ma a parte quello, i ragionamenti, anche se uno è piccolo, che poi non è piccolo, ma i ragionamenti, son ragionamenti. Altro che piccolo. Che poi dopo lui, i problemi che ho io, non ce li ha mica avuti. Ce ne ha avuti degli altri, lo so, ma quelli che ho io non ce li ha avuti. Che dipendono anche da quello che ha fatto lui. Che non dico che abbia fatto male, ha fatto bene. Ma io tutte le volte che scrivono le cose che scrivono, su di noi, che non siamo noi, io ci resto malissimo. E dopo penso “Per forza”. Sempre in televisione a parlare. Cosa vuoi che sappiano, loro, di noi? Che poi noi chi? Quella lì è la domanda. Che mio babbo, il problema, con mio babbo, non ci sono problemi, mi piace, che discorsi, è mio babbo, ma il problema, con lui, è che non è mica mio babbo. Cioè non so come dire: come se. E la stessa cosa che vale per mio babbo, vale per tutto. Per esempio: Casalecchio di Reno; io è da quando mi ricordo che abito qua, ma non è mica il mio paese, Casalecchio di Reno. Come se. Ma io, il mio paese, è una città che si chiama Kaluga. E ci siamo lontani 3.500 chilometri. E non ci sono mai stato. Cioè ci son stato, che discorsi, è la mia città, ci son nato, ma non mi ricordo, come se non ci fossi mai stato. Che mi ci è venuto a prender mio babbo quando avevo sei anni. Che dice che parlavo in russo. Che avrà anche ragione, ma a me sembra impossibile. Io, il russo, non lo so. E io per me, quello lì, è come un mistero. Cioè io, di cosa son fatto? Mio babbo, mia mamma, i miei fratelli, io, basta guardarci, non è vero niente. E la mia casa, il mio paese, la lingua che uso, anche quelle, mi viene da chiedermi se non è la stessa cosa anche per quelle. Che non è vero niente. Invece Kaluga, che non ci sono mai stato, cioè ci son stato ma non mi ricordo, invece Kaluga, e la Russia, quando leggo sopra ai giornali «La Russia», «La Russia di Putin», cosa volete sapere, voi, della Russia. Poi di Putin. “Non è mica di Putin, è mia”, mi vien da pensare. E “Per forza, – mi vien da pensare, – son sempre in televisione”. E è stranissimo. È come se nessuno potesse parlarne. Come se io, che non ne so niente, volessi impedire che il mondo parlasse di quella roba lì, di Kaluga, perché mi fa male. È come un livido che ho dentro, da qualche parte che non si vede, e che per diventar grande lo devo prendere in mano e schiacciarlo. Che devo star male. Mio babbo lo dice, che bisogna star male. E a me vien da pensare “Se bisognava star male, cosa mi sei venuto a cercare? Non potevi lasciarmi star male a Kaluga? Non era più semplice?”. Lui dice che non è semplice neanche per lui. Neanche per i miei fratelli, dice, che hanno una lingua, un paese, dei genitori che sono alti come loro, non è mica semplice neanche per loro. E magari ha ragione. Che anche lui, si chiama Gennaro, non dev’esser mica stato semplice, chiamarsi Gennaro per tutta la vita. Aleksandr, adesso non voglio vantarmi, ma, mi sembra, è molto più bello. Anche se poi, certe notti, quando vado a dormire, io faccio finta che Aleksandr, e Kaluga, e la Russia, e i giornali, non esistono mica. Che io sono nato a Casalecchio di Reno, e mi chiamo Pasquale, e sono alto uno e sessantasette, e peso novantadue chili, e son molto triste, e poi faccio una dieta mediterranea che perdo quaranta chili, e mi metto a correre la maratona, e parlo in dialetto, e faccio delle interviste che gli spiego per bene come è andata la cosa del dimagrimento e dello sport e gli dico, alla fine, che si può stare bene, e ringrazio mio babbo, e i miei famigliari, che son stati molto importanti, per me. E che poi vado in Russia, per dei campionati mondiali di cross, a Kaluga, e l’odore dell’erba, che sento, mi fa poi pensare che è un’erba speciale. E quando comincia la gara cerco poi di sforzarmi di non arrivar primo. Che chi sogna di arrivar primo secondo me, dentro la testa, ha dei problemi. Che di primo, ce n’è uno e basta, e chi arriva primo impedisce di arrivar primi a tutti quegli altri. E io, per me, se dovessi scegliere, vorrei arrivar quarto. Che quarto è un bel posto, che si vedono bene le cose, non ci sono lì tutti a guardarti, ma come sei alto, non sono alto, son quarto. Quindi. Secondo me dovrebbero darsi tutti una regolata di stare un po’ attenti. Altro che Russia di Putin.
[uscito ieri sul Fatto]