Al posto di Stalin

domenica 14 Marzo 2010

stalin

Una volta, su un treno interregionale, stavo tornando al mio posto dopo essere andato in bagno, ho sentito un signore che raccontava di essere stato a Mosca, e di aver visto la metropolitana di Mosca e di averla trovata meravigliosa. «Sì ma, – aveva aggiunto poi quel signore – l’ha fatta lo zar, eh?». Mi era venuto l’impulso di fermarmi e di dirgli: «No, guardi; quella metropolitana lì che le è piaciuta tanto, l’ha fatta Stalin, se poprio vuole saperlo». Ma poi avevo pensato che non voleva saperlo, e ero tornato al mio posto. Ecco, chi pensa che l’Unione Sovietica fosse un posto triste e sottomesso in tutto e per tutto a un brutale tiranno e che le sole cose belle che vi si trovano oggi si debbano agli zar’, o ai recenti governi post-sovietici, chi coltiva certezze di questo genere, e ci tiene, e non ha nessuna intenzione di metterle in discussione, credo farebbe bene a non leggere il libro di Gian Piero Piretto Gli occhi di Stalin, appena uscito per Raffaello Cortina editore. Non che Piretto sia un veterostalinista, tutt’altro; ma chi legge il suo libro, credo, non potrà fare a meno di concepire una grande curiosità per quell’epoca così singolare, la metà degli anni trenta, in un posto così singolare, l’Unione Sovietica: un periodo e un luogo nei quali si è realizzato «il difficile caso della coesistenza di entusiasmo e paura».
Un periodo nel quale succedevano cose stranissime, per esempio che, «secondo i prinicipi sovietici, vero oggetto d’arte non era l’originale, bensì la sua riproduzione. La tela o il foglio su cui si tracciava il prototipo altro non era che il punto di partenza per la moltiplicazione dell’immagine», perché «l’arte comunista non era commerciale. Fin dal 1919 era sparito il mercato dei beni di consumo, e l’attività artistica si era trasformata in distribuzione di idee estetiche. Non si vendeva l’opera a un committente, ma si distribuivano massicciamente immagini visive che diventavano esperienze e dovevano essere trasformate in pratiche di vita». E la cosa riguardava i campi più disparati, come, per esempio, l’arte culinaria: impariamo da Piretto che nell’edizione del 1957 del Libro sul cibo saporito e sano, si trovava scritto: «Non esiste una persona cui siano piaciute di primo acchito le olive in salamoia. Però, dopo averle assaggiate una o due volte, ci si abitua al loro sapore amaro-salato e anche le olive cominciano a piacere». E anche: «Ai formaggi molli, prelibati, forti è necessario fare l’abitudine. Il gusto e l’abitudine a prodotti nuovi non si formano all’improvviso, ma con una lenta educazione». E veniamo a sapere che, mentre in Italia Il talismano della felicità di Ada Boni recava la seguente dedica: «Di Voi, Signore e Signorine, molte sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studio superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici, e altre ancora sono esperte nel tennis o nel golf, o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova al guscio», mentre in Italia succedeva questo, l’edizione sovietica del 1939 del Libro sul cibo saporito e sano si apriva con le parole «È necessario superare i paesi capitalisti anche sul fronte economico. Solo allora, se suprereremo economicamente i principali paesi capitalisti, potremo contare sul fatto che il paese sarà interamente colmato di prodotti di consumo, che godremo dell’abbondanza di prodotti e avremo la possibiltà di passare dalla prima fase di comunismo alla seconda». Ci si chiederà se sia utile, in un libro che si intitola Gli occhi di Stalin, dedicare tanta attenzione alla gastronomia, e Piretto ne dedica altrettanta agli zolfanelli, alle carte delle caramelle, dei ciocciolatini, alle canzoni, ai film, ai cartelloni pubblicitari, all’esposizione pansovietica dell’agricoltura, al posto che, nella case sovietiche, avrebbero dovuto avere le cucine, che dovevano scomparire (sembra che Lenin le odiasse, le cucine), all’atteggiamento del regime nei confronti della sessualità («La classe, nell’interesse dell’opportuintà rivoluzionaria – scrive A. B. Zalkind, in un libro del 1925 intitolato Rivoluzione e gioventù – ha il diritto di intromettersi nella vita sessuale dei suoi membri. La sessualità deve in tutto e per tutto essere sottomessa al concetto di classe, non interferire minimamente con quest’ultimo e servirlo in tutto e per tutto»), ci si chiederà, dicevo, se tutti questi dettagli sono necessari, e la risposta mi sembra la dia lo stesso Piretto nel primo capitolo del libro, nel quale, partendo dal flâneur di Benjamin, quel «botanico dell’asfalto» che si nutre della quotidianità come di uno spettacolo, sottolinea che in quel periodo, in Unione Sovietica, ad avere la patente da flâneur, a poter godere del mondo come spettatore, che non partecipi agli eventi, era solo uno: Stalin, «detentore e fruitore pressoché unico dello spazio dello stare in un universo impostato sull’andare». Ecco, leggere questo libro in un certo senso significa mettersi lì, a una finestra del Cremlino (alla quale pure sono dedicate alcune pagine) e contemplare l’Unione Sovietica come sembra sia stata, ed è un’esperienza che, a chi non predilige la «rassicurante e coinvolgente sequenza di figure la cui leggibilità è predeterminata e organizzata in maniera da suscitare l’effetto voluto ed evitare traumi o shock di sorta», mi sento di consigliare.

[è uscito ieri su Libero]