Addio

venerdì 22 Ottobre 2010

Diario di un addio di Pietro Scarnera, appena uscito per Comma 22 (ha 80 pagine e costa 12 euro), mi viene da dire che è un romanzo a fumetti, di quelli che credo si usi definire graphic novel. Questo romanzo a fumetti, secondo me, parla della morte. Anche se, per essere più precisi, e lo si capisce dagli scritti che seguono il romanzo, uno di Beppino Englaro (il padre di Eluana), l’altro di Fulvio De Nigris, (il Direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma della Casa dei Risvegli Luca De Nigris), bisognerebbe dire che parla di: fine vita.
Solo che, come graphic novel è un’espressione recente che, ai più, non è tanto familiare, così fine vita è una locuzione burocratica che sembra fatta apposta per non pronunciare la parola morte, che è una parola che, non si capisce bene il motivo, si fa fatica a dire e si fa fatica a scrivere.
Una decina di anni fa un mio amico ha scritto un romanzo che parlava della morte dei suoi genitori, morti avvenute a una distanza di pochi mesi l’una dall’altra, e il libro, nella sua prima versione, aveva un titolo che mi aveva molto stupito, quando l’avevo letto per la prima volta: Tra poco saremo tutto morti. E io avevo pensato che era vero, e che non ci avevo mai pensato, e questa cosa qua, che era vera dieci anni fa, per una qualità che non saprei definire che hanno pochissime frasi tra le innumerevoli che uno sente dire o dice o legge o scrive, era vera anche cento anni fa, e sarà vera anche tra un centinaio d’anni. Tra poco, cioè tra pochi decenni, tutti noi, anche quelli che hanno preso in mano questo settimanale, ma non solo loro, anche quelli che sono passati dall’edicola e hanno deciso di non comprarlo, e anche l’edicolante stesso, e anche tutti quelli che da quell’edicola non ci sono passati, anche quelli che questo settimanale non l’hanno mai sentito nominare perché vivono magari in Islanda, e anche tutti gli innumerevoli cinesi che dicono siano ormai non so più quanti miliardi, tutti loro, e tutti noi, anche io che scrivo e anche tutti i miei parenti e i miei amici, incluso il mio amico che ha scritto quel romanzo lì, tra una manciata di decadi, vale a dire tra poco, saremo tutti morti. Dopo, uno può provare sollievo, a questo pensiero (non so perché mi son sempre rimasti in mente quattro versi di Metastasio che dicono «Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali / è un sollievo de’ mortali / che son stanchi di soffrir»), uno può preferire non averne, di pensieri del genere, ma la frase «Tra poco saremo tutti morti» ha in sé una potenza e una durata e, mi vien da dire, una verità, che a me sembrano incomparabilmente superiori a quelle della frase, per esempio «Tra un po’ saremo tutti arrivati al nostro fine vita».
Diario di un addio, dice la bandella, è un racconto autobiografico: Pietro Scarnera ricostruisce i cinque anni vissuti accanto al padre dopo che il padre è entrato in stato vegetativo, come si usa dire, e comincia dagli ascensori velocissimi del reparto di rianimazione, all’undicesimo piano dell’ospedale, dal sapore del caffè della macchinetta, «Bleah», dalle luci al neon, dalle interminabili ore di attesa e dalle barchette di carta costruite in modo ossessivo con le cartoline dell’assistenza sanitaria.
Scarnera racconta che quei cinque anni sono passati come accanto a un estraneo. «Per me era un’altra persona, perché mio padre l’avevo visto morire. Era successo pochi giorni prima, una mattina presto. Mio padre aveva avuto un arresto cardiaco. L’avevo trovato disteso per terra. Il tempo di chiamare il 118 e aveva smesso di respirare. Ancora adesso non riesco a dimenticare le parole del dottore dell’ambulanza… erano riusciti a rianimarlo, ma ci stava spiegando che la situazione era grave. “Lo abbiamo ripreso, ma quando siamo arrivati era morto”. Ma se mio padre era morto, la persona stesa adesso su quel letto chi era?». «N on riuscivo a capire niente della persona distesa in quel letto. Forse mio padre, mio padre come lo ricordavo io, era intrappolato da qualche parte e non poteva rispondermi». «Mi sembrava molto più presente a casa, quando mi sedevo alla sua scrivania, fra gli oggetti che fino a poco tempo prima aveva usato tutti i giorni, i suoi occhiali, la pipa, le chiavi della macchina». «Nessuno in famiglia aveva il cuore di usarli. Non toccavano nemmeno i soldi rimasti nel suo portafogli. Non usavamo la sua auto, né il cellulare… ci sarebbe sembrato di tradirlo». «Avevamo chiuso tutto in un cassetto, aspettando che mio padre tornasse a casa».
Questo è il primo libro, di Pietro Scarnera, che vive a Bologna e fa il giornalista. È un racconto sobrio, fatto di cose, e il disegno, è essenziale, pulito, comprensibile, mi viene da dire intelligentemente al servizio della racconto di quella cosa lì che non si potrebbe dire né scrivere e che invece io ho l’impressione che sia l’unica cosa che abbiamo da dire e da scrivere.
Il romanzo di quel mio amico non è poi stato pubblicato con il suo titolo, ha cambiato titolo, è diventato Sulla felicità a oltranza (il mio amico si chiama Ugo Cornia). Qualche anno dopo hanno chiesto a me e a Ugo di scrivere un racconto proprio che avesse per tema proprio la morte, per un’antologia che si doveva chiamare, quella sì, Tra poco saremo tutti morti. Quando sono andato alla presentazione di quell’antologia e ho preso in mano il libro, mi sono accorto che il curatore aveva cambiato il titolo, l’antologia si intitolava Racconti di un giorno che sai. Quando sono andato sul palco, eravamo a Modena, alla biblioteca Delfini, se non ricordo male, forse ricordo male, una volta sul palco avevo detto che c’era da chiedersi cosa sarebbe successo se Thomas Mann avesse intitolato il suo racconto Un giorno che sai a Venezia. O Tolstoj, il suo, Un giorno che sai di Ivan Il’ič.
Dentro quell’antologia, qualche giorno dopo, avrei trovato un breve testo di Dario Voltolini in cui ci sarebbe stato scritto: «Mio papà è morto da tanti anni, eppure nella mia mente, ma nel mio corpo altrettanto, riconosco un movimento che ha a che fare con lui. Che è lui. La morte e la vita, diciamo spesso con una frase semplice, sono aspetti della medesima cosa. E per quanto possiamo complicare la faccenda, è poi questa semplicità a dirci qualcosa di essenziale, non certo le complicazioni. Tutto il dolore per la perdita di mio padre, tutto il dolore provato da lui, tutto il dolore che c’è, è qualcosa di forte. Dovessi dire che si è affievolito con il passare degli anni, mentirei. Certo, è mutato. Ma permane e questa permanenza ha a che fare con il tempo e con me più che ogni considerazione astratta, intellettuale o letteraria che io possa fare. Noi sappiamo così poco. E quel poco che sappiamo cerchiamo di dimenticarlo. Per fortuna non ci riusciamo».

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