Abituarsi

giovedì 28 Settembre 2017

Se uno non ha mai viaggiato in carrozza per delle remote strade di campagna, allora non vale la pena che glielo racconti: non capirebbe comunque. E a uno che quel viaggio l’ha fatto, preferisco non ricordarlo.
In breve: le quaranta verste che separano la città di Gračevka, capoluogo di distretto, dall’ospedale di Mur’e, io e il cocchiere ci abbiamo messo ventiquattrore esatte, a percorrerle. Un’esattezza curiosa, perfino: alle due del pomeriggio del 16 settembre del 1917 eravamo all’altezza dell’ultimo magazzino, all’estrema periferia della notevole città di Gračevka, alle due e cinque del 17 settembre di quello stesso indimenticabile 1917 ero in piedi sull’erba strappata, morente e macerata dalla pioggia di settembre del cortile dell’ospedale di Mur’e. Ero in queste condizione: le gambe si erano ossificate, e a tal punto che io, proprio lì, nel cortile, sfogliavo, confuso, nella mia testa, le pagine del manuale cercando, con aria ottusa, di ricordare se esisteva veramente, o se mi era solo sembrato la notte prima, al villaggio di Grabilovka, una malattia che provocava, nell’uomo, l’ossificazione dei muscoli. Come si chiamava, maledetta, in latino? Ciascuno di questi muscoli mi doleva di un dolore insopportabile, che ricordava il mal di denti. Delle dita dei piedi non è il caso di parlare, non si muovevano neppure, negli stivali, stavano lì beate e pacifiche, sembravano moncherini di legno. Riconosco che, in uno slancio di meschinità, maledissi sottovoce la medicina e la richiesta d’iscrizione che avevo presentato cinque anni prima al rettore dell’università. In quel momento pioveva che Dio la mandava. Il mio cappotto era gonfio come una spugna. Con le dita della mano destra provavo invano a afferrare la maniglia della valigia, e alla fine avevo sputato sull’erba bagnata. Le mie dita non potevano afferrare niente, e io, imbottito di notizie di tutti i tipi da interessanti libri di medicina, mi ero ricordato una malattia: la paralisi; “Paralisis”, mi ero detto, disperato, nella mia testa, il diavolo sa perché.
“Aaa… alle vostre strade”, avevo detto con delle labbra di legno, blu, “bisogna aaaa… abituarsi”.
E intanto, chissà perché, guardavo con uno sguardo cattivo il cocchiere, benché lui, a dire il vero, non avesse nessuna colpa, per la condizione delle strade.
“Poveri noi… compagno dottore, – aveva risposto il cocchiere, anche lui muovendo appena le labbra sotto i baffi chiari, – sono quindici anni che faccio questo mestiere, a abituarmici non ci sono ancora riuscito”.

[Memorie di un giovane medico, in preparazione]