A testa nuda
Ci sono dei versi, come «Ho imparato la scienza degli addii nel piangere notturno a testa nuda» (di Mandel’štam), o «Vivere una vita non è attraversare un campo» (di Pasternak), o «Mi piace che mi grandini sul viso la fitta sassaiola dell’ingiuria (di Esenin), o «Poco, mi serve. Una crosta di pane, Un ditale di latte E questo cielo E queste nuvole» (di Chlebnikov) che, quando uno li legge, è poi probabile che quei versi lì vivano con lui per tutta la vita, e per tutta la vita, da quando l’ho letto la prima volta, vive con me «Stupefatto del mondo mi giunse un’età che tiravo dei pugni per aria e piangevo da solo», che non è un verso russo, è italiano, il celebre inizio di Lavorare stanca di Cesare Pavese che sarebbe, con Guido Gozzano («Socchiudo gli occhi estranio ai casi della vita; sento fra le mie dita la forma del mio cranio»), il più grande poeta italiano del Novecento, per come la vedo io, se non fosse che 24 anni fa sono andato a sentire un signore romagnolo, magro, elegante, con gli occhiali, i capelli bianchi e dei modi gentili, Raffaello Baldini.
[Oggi sulla Stampa c’è un pezzo che ho scritto io su Chiudo la porta e urlo, che esce domani. Stasera, alle 19, sul mio profilo Instagram, ne parlo ancora]