Usare la testa

domenica 28 Settembre 2014

L’altro giorno son stato a Cremona a parlare di libri e mi è successa una cosa che mi ha fatto venire in mente il critico russo Bachtìn. Il critico russo Bachtìn, in un saggio che si chiama La parola nel romanzo, ha scritto una cosa che io l’ho letta nel 1988 e me la ricordo ancora, cioè che il 50 per cento delle cose che diciamo non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. Io, allora, quando l’ho letta, avevo 25 anni e avevo pensato che era vera; adesso, quando ci ripenso, che di anni ne ho 51, mi vien da pensare che Bachtìn era uno che aveva una bella testa perché io, quella percentuale lì delle cose che ripeto e che non le dico per la prima volta raggiunge probabilmente il 98 per cento, e quando dico una cosa io, che ho pensato io, sono giorni da segnare sul calendario, mi vien da pensare. Ecco, a Cremona, l’altro giorno, nel bel mezzo di una conversazione pubblica nella quale facevo quello che si fa di solito nel bel mezzo delle conversazioni pubbliche, cioè ripetevo delle cose che avevo già detto o che avevo sentito dire, improvvisamente, l’altro giorno, è saltata fuori una cosa che mi sembra di non aver mai detto prima. La cosa è successa in risposta a una domanda che mi avevano chiesto cosa pensavo della qualifica di intellettuale, e io ho detto che la qualifica di intellettuale, è una parola, per me, intellettuale, che non la capisco così come non capisco bene la parola scrittore; che io quando mi chiedono il mestiere che faccio se rispondessi che faccio lo scrittore mi sembrerebbe, nello stesso tempo, di darmi delle arie e di esser ridicolo, ho detto. Perché uno che dice che lui è uno scrittore è come se dicesse che lui è uno scrittore bravo, cioè è uno scrittore che scrive delle cose belle, e invece io quando mi chiedono il mestiere che faccio io dico che scrivo dei libri, non dico belli, dei libri, dico, che è una cosa vera perché effettivamente io scrivo dei libri, ne pubblico due o tre all’anno, ed è una cosa che riesco a dire senza sentirmi ridicolo e senza sentire che mi sto dando delle arie e questo per quel che riguarda la parola scrittore; per quel che riguarda la parola intellettuale, invece, la cosa che non mi suona tanto bene, di quella parola, è il fatto che uno si fa l’idea di un mestiere dove si usa solo l’intelletto, che invece secondo me scrivere, una volta hanno chiesto a Bukowski cosa ci vuole per scrivere, lui ha detto che ci voglion due cose: una macchina da scrivere, e una sedia; «Delle volte è difficile trovare la sedia», ha detto Bukowski, e quel fatto lì di cercare la sedia, tutti i giorni, quella non è una cosa che si fa con l’intelletto, si fa con la pancia, e la maggior parte delle cose che si fanno quando si scrive, non si fanno con l’intelletto, si fan con la pancia, o con i denti, o non so con che cosa, e io quando finisco un romanzo, quei giorni lì che sto finendo un romanzo, o una traduzione, la mia casa sembra una macelleria, non può entrare nessuno, in casa mia, in quei giorni lì, perché mi sembra che tutto sia impregnato del sangue non so di chi, di qualcosa, ho detto l’altro giorno a Cremona, e quando l’ho detto ho pensato “Guarda, quella cosa lì della macelleria e del sangue non l’avevo mai detta l’ho pensata oggi per la prima volta”.

[uscito ieri su Libero]