Una rosa

domenica 5 Settembre 2010

urgu

Nella piazza dei balli di Seneghe, il selciato disegna una rosa. Al centro di questa rosa, una volta all’anno, il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno, si siede un fisarmonicista e comincia a suonare, e suona una musica che, a Seneghe, si suona solo una volta all’anno. E i seneghesi si mettono a ballare lungo le linee tracciate dai bordi dei petali di questa rosa, e ballano un ballo che si balla solo una volta l’anno, il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno. E ogni tanto succede uno scandalo. Una donna, invitata da un uomo, viene abbandonata in mezzo alla piazza. Questo succede il martedì grasso, l’otto marzo quest’anno.
In questi giorni, il primo fine settimana di settembre, venerdì tre, sabato quattro e domenica cinque, quest’anno, quella rosa è il simbolo del settembre dei poeti, il Cabudanne de sos poetas, un festival di poesia che per me, che ci vengo da cinque anni, raccontare è difficilissimo.
Perché è vero che qui sono passate, in questi anni, alcune tra le voci più importanti della poesia italiana contemporanea, Franco Loi, Mariangela Gualtieri, Davide Rondoni, Antonella Anedda, Franco Marcoaldi, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Elisa Biagini, Silvia Bre, Flavio Santi, Ivano Ferrari, Anna Cristina Serra, Maurizio Cucchi, Gabriele Frasca, Laura Pugno, Milo De Angelis, Erri De Luca, è vero che sono venuti Giovanni Lindo Ferretti, Cristina Donà, Lella Costa, Emidio Clementi, Paolo Fresu, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Vasco Brondi, è vero.
Ma la particolarità del festival, il motivo per cui vale la pena di venire qua, a Seneghe, nel Montiferru, vicino a Oristano, in questi giorni di settembre, quest’anno, o l’anno prossimo, o l’anno dopo, quando volete, a me sembra sia un altro, o meglio, anche un altro, non solo per sentire Ivano Ferrari, o Fanco Loi, o Antonella Anedda, o Valentino Zeichen, o Valerio Magrelli, o Silvia Bre, o Mariangela Gualtieri, cioè anche per sentire loro, e anche per sentire la gara a chitarra, che è una gara tra cantanti sardi, che hanno una serietà che sembran degli avvocati, e anche per sentire gli improvvisatori campidanesi, che sono ancora più seri dei cantanti della gara a chitarra, sembran dei notai, e anche per sentire i cori a tenores, che sono ancora più seri degli improvvisatori campidanesi, sembrano degli ambasciatori, e anche per sentire gli innumerevoli poeti dialettali e stranieri che si sono succeduti sui palchi delle piazze e dei vicoli di Seneghe, e anche per vedere la piazza sempre piena, e piena per metà degli abitanti del paese, che si dice all’inizio fossero diffidenti e che poi siano andati, alla fine della seconda edizione, dagli organizzatori a dire «Se avete dei problemi, facciamo una colletta, il festival deve andare avanti», e anche per sentirvi dire «Vieni, ti faccio vedere il sardo più famoso che c’è al mondo», e per chiedere «Cossiga?», e per sentirvi dire «No, non Cossiga», e per chiedere «Più famoso di Cossiga?», e per sentirvi rispondere «Più famoso anche di Gramsci», e per vedervi portare davanti a Benito Urgu, e anche per vedere dei ragazzi sardi che recitano Karl Valentin per quaranta minuti, diretti da Roberto Magnani, del teatro delle Albe, e per vedere trecento persone che li ascoltano e aver l’impressione di essere a Napoli a sentire Mario Merola che recita “’O zappatore”, e anche per sentire il poeta Atoni Canu, ex tecnico delle lavatrici, che legge in una lingua singolarissima, un misto di catalano e algherese, una poesia che gli ha commissionato la Zanussi, la prima poesia che ha scritto, che si intitola Vibrazioni, e che parla del cervello della lavatrice, e anche per sentire Bruno Tognolini che recita una filastrocca su un nonno che muore, e vedere una piazza, quattrocento persone, che piangono insieme, all’unisono, anche per questo, dicevo, vale la pena di venire a Seneghe, ma vale la pena anche per svegliarsi, al mattino, e mettersi per strada, lungo corso Umberto, e salutare tutti quelli che incontri, uno per uno, anche se non li consoci, e prendere un caffè al bar del centro, che è un bar con un arredamento anni settanta, senza controsoffiti, e dipinto di giallo, con le tende a fili contro le mosche, e la foto del Cagliari che ha vinto lo scudetto, e il calciobalilla, e anche per salutare tutti quelli che sono al bar, anche se non li conosci, e anche per cominciare alle dieci a sentir leggere delle poesie sotto una pergola di uva perlona, nel cortile di un frantoio che si chiama Sa prentza de Murone, e anche per passare poi da una porticina e fare un giro in giardino, non un giardino all’inglese, né alla francese, un giardino alla sarda, un giardino del Montiferru, un frutteto, con i muretti a secco, e i fichi d’india, e le noci, e le mandorle, e delle sedie a sdraio, e per tornare poi nel frantoio a bere un vermentino, e mangiare due olive, e per poi andare l’agnello all’asino Rosso, e per andarvi poi a riposare al Bed and Brekfasta da Maddalena, e per passar poi dal sarto del paese a comprarvi un cappello, non un cappello all’inglese, alla Sherlock Holmes, un cappello alla sarda, alla Benito Urgu, e per poi andarvi a sedere in Sarroga de Putzu Arru, a aspettare l’incontro successivo e leggere un cartello che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne», e così per tre giorni, e ci son dieci cose al giorno, e il mare è a quindici minuti di macchina, e la montagna è a quindici minuti di macchina, e a me piace molto, e son cinque anni che ci vengo, ma se a voi non piace, come non detto, state pure a casa.

[Esce oggi su Libero, fotografia di Simona Toncelli]