Una frase di Gogol’

martedì 11 Settembre 2018

Perfino nelle ore in cui il cielo grigio di Pietroburgo si spegneva completamente, e tutto il popolo impiegatizio mangiava da star male, e pranzava, ognuno come poteva, in conformità con lo stipendio che gli davano e secondo il proprio capriccio, quando tutti ormai si riposavano, dopo il dipartimentale scricchiolio dei pennini, dopo le corse, dopo le occupazioni inevitabili, per sé e per gli altri, e dopo tutte le cose che un uomo instancabile si impegna volontariamente a fare, perfino più di quel che sarebbe necessario, quando i funzionari si affrettavano a dedicare al piacere il tempo che era loro rimasto, chi, più vivace, andava a teatro, chi, per strada, dedicava il suo tempo all’osservazione di certi cappellini, chi, a una serata, lo perdeva a far dei complimenti a una ragazza avvenente, stella di una piccola cerchia di impiegati, chi, e questo succedeva il più delle volte, andava, semplicemente, da suo fratello, al terzo o al secondo piano, due piccole stanze con anticamera e cucina, e certe pretese di moda, una lampada, o un’altra cosetta, che erano costate molti sacrifici, rinunzie a pranzi e a passeggiate, insomma, anche nel momento in cui tutti i funzionari si sparpagliavano negli appartamentini dei loro conoscenti a giocare un whist all’assalto, bevendo il tè dal bicchiere, con dei biscotti secchi da una copeca, tirando il fumo da lunghi bocchini, raccontando, mentre distribuivano le carte, un pettegolezzo raccolto nell’alta società, cosa dalla quale mai, in nessun caso, può esimersi l’uomo russo, o perfino, quando non c’era niente da dire, riraccontando l’eterna storiella del comandante al quale erano andati a dire che la coda del cavallo del monumento di Falconet si era rotta, insomma, anche quando tutti si sforzavano di divertirsi, Akàkij Akakèvič non si concedeva nessuno svago.

[Nikolaj Gogol’, Il cappotto]