Tutti i giorni

sabato 29 Dicembre 2018

Io devo dire, mi dispiace dirlo in un momento del genere, sotto le feste, ma io, al fatto che Gesù Cristo sia nato il 25 dicembre dell’anno zero faccio fatica a crederci. Mi fido poco degli uffici pubblici italiani di oggi, Anno Domini 2018, figuriamoci dell’anagrafe palestinese di 2018 anni fa.
Però anch’io, come la maggioranza di noi, in questi giorni sono dentro questa atmosfera, natalizia, che è un’atmosfera che aspira al sacro senza arrivarci mai, mi sembra.
Un po’ di anni fa, otto anni fa, nel dicembre del 2010, si è inaugurata, alla galleria civica di Modena, alla Palazzina dei Giardini e a Palazzo Santa Margherita, una mostra che si chiamava Lo spazio del sacro, e a me avevano chiesto di scrivere qualcosa sul sacro che entrasse nell’audioguida e io, ero in difficoltà, devo dire.
Dopo, pian piano, è saltato fuori un testo, che è questo qua: «Oggi, forse, la cosa che manca, nelle nostre, come dire, vite, si fa fatica anche a pronunciarle, queste parole, La mia vita, per non parlare della morte, La mia morte, La morte di mio babbo, e anche La morte, da sola, oggi, forse, quello che manca, a parte le autorità, che son sparite, non ci sono più, c’è stato un momento che ci sono state, forse, oggi non c’è più nessuna autorità, a parte quello, che quello lo sappiamo, oggi, forse, quello che manca, mi vien da pensare, è la figura del sacro, quel che abbiamo di sacro, ma non quello che c’è dentro la testa, che lì ciascuno ha la propria testa, che per uno è la patria, per uno è la famiglia, per uno è la legge, per uno è la libertà, per uno è Dio, quanto spazio prende Dio, nei nostri discorsi, ma io non parlo dei discorsi, parlo delle vite, dei momenti che il mondo, si fa fatica a pronunciarla, questa parola, Mondo, dei momenti che il mondo ti dà una botta, come se ti dicesse che esiste, come se ti tirasse fuori dai tuoi pensieri, come se ti tirasse la giacca, se tu avessi una giacca, e ti si manifestasse, nel senso che è lì, e c’era anche prima, e tu te l’eri scordato, e ti accorgi che suona, il rumore delle sfere, che delle volte si va a nascondere in cose minuscole, in momenti che non l’avresti mai detto, come quando stendi il bucato, e poi esci e torni a casa e senti odore di sapone di Marsiglia, o come quando hai un computer nuovo e stai caricando il programma di scrittura, o quando sei in giro, in centro, con tua figlia, e ti volti a vedere se è dietro di te e la vedi e ti vien da pensare ‘Ma com’è bella’. Quando firmi un contratto di allacciamento del gas. Quando vedi che gli alberi sono diversi e pensi ‘L’autunno ha cambiato il giardino’. Tutte le volte che ti svegli che hai fame. Quando senti qualcuno che sta attento a quello che dice. Quando ti rammendi le tasche della giacca. Quando si beve il primo vino dell’anno, hai vent’anni, e sembra un succo di frutta, si e no cinque gradi. Quando vedi un uomo assorto nei suoi pensieri. Quando stai per lasciare l’appartamento nel quale hai abitato tre anni, fai l’ultimo giro e trovi il mozzicone di candela che avevi usato il primo giorno che c’eri entrato, che non ti avevano ancora attaccato la corrente. Quando stai stendendo i panni e ti sorprendi a cantare. Quando sei in giro, al mattino, per il centro, e tutti i posti in cui devi andare sono ancora chiusi, e entri in un bar, e ti ci fermi mezz’ora, e ci trovi una folla di pensionati che gira intorno ai quotidiani come i bambini, con la bella stagione, intorno alle altalene dei giardini pubblici. Quanto tuo babbo ti chiama Ligera, hai tre anni, e tu pensi che voglia dire cravatta, e sei contento che tuo babbo scherza con te. Quando esci da lavorare, hai sedici anni, hai fatto otto ore in un prosciuttificio, e adesso vai a casa, e se così contento che ti strapperesti i capelli. Quando sei a letto, e sei stanco, e dici alla tua gatta, che ha quattordici anni, “Vieni qui”, e la gatta vien lì. Quando sei sulle spalle di tuo nonno, e fate una gara di corsa, e tu e tuo nonno vincete, e tu eri il più piccolo e non vincevi mai. Quando su per una salita, sull’appennino, è notte, hai ventisei anni, sei a piedi, per mano a una ragazza, e voltate l’angolo della strada e c’è un mare di lucciole, e non è normale, tutte queste lucciole, dev’esser successo qualcosa. Quando tagli il pane, certe volte. Quando sei da solo, e ti apparecchi. Quando parli e ti sembra di sentire tuo babbo, che è morto da undici anni». E finiva così. E, devo dire, non era un elenco di giorni festivi, erano tutte sacralità minuscole, feriali, insignificanti, tanti piccoli natali, nel senso di tante piccole nascite, che erano successe tutte di lunedì, o di mercoledì, o in uno di quei giorni lì.
E, confesso una mia debolezza, questo elenco qua, otto anni fa, mi era piaciuto così tanto che avevo chiesto ai frequentatori del mio blog (ho un blog che si chiama come me: www.paolonori.it), di mandarmi i loro elenchi di sacralità (feriali).
E un signore che non so come si chiami, e che immagino faccia l’insegnate, è stato uno dei primi che me le ha mandate e mi ha scritto: «La cucina nuova tutta bianca, che la guardi e pensi ‘Chissà come sarà bella quando ci saranno le fragole’. E
venti teste chine di undicenni che non sanno nemmeno che ci sei, perché sono troppo presi a scrivere le loro cose».

E una mia amica, che si chiama Isabella, e che è una matematica, appena dopo mi ha scritto: «La mano di un bimbo piccolo che disegna. Finire un libro di ottocento pagine che ti è piaciuto. La prima sera di primavera che uscendo tardi dal lavoro c’è ancora luce. Quando tua nipote di due anni, mentre state giocando, ti prende la faccia con le due mani per darti un bacio sulla fronte. I numeri primi. Quando stendendo metti tutte le calze a coppie e scopri che non ce ne sono di spaiate».
E una ragazza che si chiama Marina mi ha scritto «Quando ti compri un libro, e ci puoi fare le orecchie per tenere il segno, che con quelli della biblioteca non si può. Quando torni a casa tardi la sera e tua figlia ti ha messo un biglietto sul cuscino con su scritto ‘sogni d’oro e dammi un bacio anche se dormo’. Quando riesci a pagare l’IVA trimestrale (trimestrale, che parola del cazzo). Quando leggi una favola che finisce con: ‘Così han messo i piedi sulla vita, e la favola è finita’».
E un ragazzo che si chiama Fabio mi ha scritto: «Quando ti svegli a preparare il latte e caffè per due che fuori c’è la nebbia ed è sabato. Quando metti i libri nei pacchi che stai traslocando ancora una volta. Ogni volta che lei si addormenta mentre guardate un film. Quando dormi nel sacco a pelo che hai appena traslocato e non hai fatto il letto. Quelle tre volte l’anno che ti fai la barba. Quando l’odore della neve con la finestra aperta. Tutte le volte che le nonne fanno cose con la farina in cucina. Quando ti manca qualcuno. Guardare fuori dal finestrino del treno. Delle volte che hai freddo».
E una ragazza, che si chiama Chica, mi ha scritto: «Quando stavi per ore seduta ad allattare tuo figlio, con un mano reggevi lui, con l’altra un volume di Guerra e pace e ogni tanto tutt’e due vi staccavate dai rispettivi incantamenti e vi guardavate.
Quando ascolti certa musica, tipo i Beatles, e hai la netta sensazione che non ti serva altro al mondo. Quando sfrecci a cavallo della tua bicicletta bianca. Quando vinci la timidezza e vai a correre anche se ti vergogni delle persone che ti guardano. Quando annusi un libro ficcando bene la faccia tra le pagine. La volta che da piccola riesci a finire una pizza intera alla pizzeria Gatto nero e per farle posto avevi studiato una strategia e rinunciato alla coca cola. Quando la sera leggi un libro ai tuoi figli. Quando, un po’ di tempo dopo, i tuoi figli sono a letto e quella più grande legge la Pimpa al più piccolo e li senti ridere e il più piccolo dice : “Ancora!”. Quando, anni dopo, trovano per casa L’Accalappiacani con la storia della gallina fischiona e gli viene l’idea di fare come da piccoli con la Pimpa e se ne vanno di là e li senti leggere ad alta voce e ridere a crepapelle.
Quando per anni tutti i giorni fai lo stesso tragitto tra i vicoli e sai che in un punto preciso comparirà tra le case, per un istante, il verde intenso della chioma di un albero altissimo e un pezzetto di cielo che si vede solo da lì e ogni volta pregusti il momento.
Quando spingi fuori un figlio e ti sembra di non aver più paura di niente e hai la netta sensazione che questo abbia a che fare con la morte. Tutte le volte che per strada incontri un’altra persona dai capelli arancio e vi scambiate quegli sguardi di riconoscimento che non ti capita con nessun altro. Quando nuotando ti concentri sui gesti e scivoli via veloce».
E un mio amico, che è un poeta, e si chiama Giancarlo, mi ha scritto: «Quando ti compri un chilo di piccole mele annurche con gli ultimi soldi in tasca che ti son rimasti, per quel mese, anche se manca ancora una settimana. Quando ti cuci il pollice del tuo guanto di lana nero, sul davanzale, mentre fuori sta nevicando. Quando, tornando a casa, ti viene incontro giubilante il tuo figlioletto che ha, solo da qualche giorno, cominciato a camminare». E uno che si firmava Mczarb, e chissà come si chiama, mi ha scritto: «Quando vedi un vecchio vestito dalla festa». E che meraviglia mettere insieme queste cose otto anni dopo, in questi giorni di festa, oggi, nell’Anno Domini 2018.

[Uscito ieri sulla Verità, grazie a tutti quelli che mi hanno mandato i loro testi sul sacro]