Quello stupore

giovedì 14 Novembre 2019

Recentemente son stato a Albinea, in provincia di Reggio Emilia, a sentire Julio Velasco che raccontava i libri della sua vita.
Velasco, quella sera, dopo aver detto che lui, da ragazzo, quando leggeva Sandokan avrebbe voluto essere Sandokan, e, quando leggeva romanzi i cui protagonisti eran degli orfani avrebbe voluto essere un orfano, ha detto anche che, quando gli è arrivata la prima offerta per allenare in Europa, lui, argentino, era contentissimo, e pensava, nella sua testa, che l’Europa fosse tutta una cosa come Parigi.
Quindi è partito convinto di andare in un posto tipo Parigi, poi è arrivato, si è guardato intorno: era a Jesi.
Che dev’essere bella, Jesi, però Parigi, non so come dire, è un’altra cosa, credo.
A sentire questa storia di Velasco mi è venuto in mente un libro di Giorgio Manganelli che racconta i suoi viaggi in Italia, che (La favola pitagorica), e in quella raccolta di saggi (curata da Andrea Cortellessa), ce n’è uno che parla di una città che, nella mia testa, è parente stretta, di Jesi (che io mi ricordi, non son mai stato a Jesi): Ascoli. Mai stato neanche ad Ascoli (secondo me).
Questo pezzo di Manganelli si intitola Esiste Ascoli Piceno?, col punto interrogativo, e comincia così:

«Da una rivista di Ascoli Piceno ricevo una lettera, nella lettera mi si chiede se non vorrei scrivere due o tre cartelle per quella rivista. La lettera viene da una zona periferica, e chi vive in quel luogo è lieto di essere un periferico. Il punto è: esiste Ascoli Piceno? Ricordo di averla visitata in una esistenza che, per molti indizi, dovrei considerare precedente; quello che non ho potuto stabilire è se Ascoli Piceno esiste ora. Rammento di aver bevuto l’anisetta in una piazza estremamente decorativa; ritengo improbabile che una piazza così fatta esista veramente; probabilmente è una allucinazione, come la parola «rua» per designare una strada, o le olive ripiene. Sappiamo che nessun ricordo dà la certezza che qualcosa sia veramente accaduto; non è impossibile che io soffra di una nevrosi ascolana, una forma che suppongo rara, e curabile solo da analisti ascolani che siano giunti, da soli, per autoanalisi, alla scoperta che Ascoli Piceno non esiste, è solamente una tradizione, anche se estremamente ricca di particolari. Ora, il problema potrebbe essere: se Ascoli Piceno esistesse, e quindi potrebbe, niente più che potrebbe, esistere una rivista, e se questa rivista mi chiedesse un racconto di due-tre cartelle io risponderei positivamente? Non credo».
Questo (meraviglioso, secondo me) libretto di Manganelli, me ne ricorda un altro di Georges Perec che si intitola L’infra-ordinario (l’ha pubblicato, 25 anni fa, Bollati Boringhieri, l’ha tradotto Roberta Delbono e è esaurito da anni, ho paura), il cui primo saggio ha un titolo in forma di domanda anche questo, una domanda strana: Approcci di che cosa?,
In questo suo saggio Perec invita i giornalisti e i giornali francesi a parlare di cose ordinarie, anzi, infraordinarie, a non occuparsi di cose esotiche (cose strane lontane da noi) ma di cose endotiche (cose strane vicine a noi):
«I giornali – scrive Perec – parlano di tutto tranne che del giornaliero. I giornali mi annoiano, non mi insegnano niente: quello che raccontano non mi riguarda, non mi interroga e tantomeno risponde alle domande che faccio o vorrei fare.
Quello che succede davvero, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, – continua Perec – dov’è? Quello che succede tutti i giorni e che torna a succedere ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo?
Interrogare l’abituale. Ma, appunto, ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituisca un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non veicolasse né domande né risposte, come se non contenesse nessuna informazione. Non è nemmeno più un condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è, la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose comuni”, o, piuttosto, come braccarle, come stanarle, come staccarle dal pietrisco nel quale sono inglobate, come dar loro un senso, una lingua: che parlino, infine, di quello che è, di quello che siamo.
Forse di tratta di fondare, finalmente, la nostra antropologia: quella che parlerà di noi, che cercherà, dentro di noi, quel che abbiamo sottratto, così a lungo, ad altri. Non più l’esotico, ma l’endotico.
Interrogare quello che sembra talmente evidente che ne abbiamo dimenticato l’origine. Ritrovare qualcosa dello stupore che potevano provare Jules Verne o i suoi lettori davanti a un apparecchio capace di riprodurre e trasportare i suoni. Perché è esistito, quello stupore, con migliaia di altri, e sono loro che ci hanno plasmato.
Quel che bisogna interrogare sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, il modo in cui passiamo il tempo, i nostri ritmi. Interrogare quel che sembra aver smesso per sempre di stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo porte, scendiamo scale, ci sediamo a un tavolo per mangiare, ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando? Perché?».
Ecco.
Io, a questo punto, vorrei cominciare una minuscola serie di articoli che provino a parlare dell’infra-ordinario, delle cose quotidiane, banali, che conosciamo così bene che le lasciamo così come sono senza domandarci come mai, sono così.
Come ha fatto, invece, una delle redattrici del Repertorio dei matti del Canton Ticino, recentemente uscito per Marcos y Marcos, quando ha scritto la storia che vi copio qua sotto:
«Una tagliava da sempre l’arrosto alle due estremità prima di cucinarlo. Due centimetri buoni di carne cruda per parte. La figlia le aveva chiesto perché lo facesse e la madre le aveva risposto che non lo sapeva bene, a casa sua si era sempre fatto così, lo aveva visto fare dalla nonna. La figlia aveva quindi chiesto alla nonna il perché di quel taglio dell’arrosto e la nonna le aveva risposto che glielo aveva insegnato la bisnonna e che doveva sicuramente essere un trucco per farlo più buono.La figlia aveva quindi chiesto alla bisnonna i motivi di quella carne sacrificata e lei le aveva detto che lo aveva sempre fatto perché la pentola che aveva era sempre più piccola dell’arrosto che comprava e che non poteva fare altro che accorciarlo per farcelo stare tutto intero».
Cominciamo la settimana prossima con i nostri genitori. Come sono, i nostri genitori?

[Uscito ieri sulla Verità]