Quello che ho fatto

sabato 5 Settembre 2015

Questa settimana è cominciato il festival del cinema di Venezia, e io, quello che ho fatto, non ci sono andato. Che è una cosa che son contento, di averla fatta, per due motivi, perché ci son stato due anni fa e non mi era tanto piaciuto, e perché così mi sono incamminato sulla strada dell’assenzialismo, che è la filosofia di Learco Pignagnoli così come la interpreta Ugo Cornia. L’assenzialismo, ha detto una volta Ugo Cornia, è un movimento che sceglie il non esserci come pratica. Ma in che senso, il non esserci? Il non esserci nel senso della pratica quotidiana di mancare a qualsiasi evento, anche eventi minimi di una mattina qualunque, nel senso di essere assenti il più possibile a se stessi, agli altri e alle cose. Se nel corso di qualsiasi evento, anche dei più banali, dice Cornia, qualcuno chiede “C’è Pignagnoli?” la risposta inevitabile è “No, Pignagnoli non c’è”, perché Pignagnoli non c’è mai. Pignagnoli è sempre assente. Ma l’abilità, dice Cornia, il sentire con fiuto qualsiasi situazione come situazione in cui mancare, o essere assenti, assume in Pignagnoli il valore della profezia, cioè il fatto di non esserci già prima degli altri, che invece ci saranno ancora, il che in pratica si realizzava nel non esserci di Pignagnoli per esempio a cavallo degli anni cinquanta negli stessi luoghi in cui tutti non volevano più esserci negli anni novanta, ma nel cinquanta solo Pignagnoli era assente e mancava. Di conseguenza, ha detto Cornia, sapere dove adesso non è Pignagnoli, conoscere gli innumerevoli eventi presso i quali Pignagnoli non è già a partire da oggi o non è stato negli anni appena trascorsi, potrebbe mostrarci luoghi o eventi ai quali vorremmo mancare nel 2030, ma oggi, per una carenza di fiuto, tutti accorriamo anche senza bisogno di esser pagati, ha detto Cornia, e io questa settimana, intanto, uno dei posti dove non sono andato è il festival del cinema di Venezia, però sono andato in una libreria di Bologna e ho trovato un libro di uno scrittore ceco che ci chiama Karel Čapek ed è quello che, in un’opera teatrale del 1929, intitolata R.U.R, ha inventato la parola robot, del ceco robota, che significa lavoro faticoso, corvée, e in ceco non lo so ma in russo mi è sempre piaciuto il fatto che il verbo scioperare, bastovat’, venisse da una parola italiana, basta, cioè smettere di lavorare, ma questo non c’entra perché in libreria, questa settimana, io non ho trovato R. U. R., ma un libro di viaggi, di Čapek, che si chiama fogli italiani e c’è un viaggio a Venezia dove c’è l’elenco delle cose che gli sono piaciute di più e quelle che gli sono piaciute di meno, a Venezia, e quelle che gli sono piaciute di meno sono gli ufficiali di dogana cecoslovacchi, Vienna, la spaventosa folla di turisti a Venezia, San marco, che «non è architettura, è un organetto; si cerca la fessura in cui inserire la moneta perché tutto l’apparato comincia a suonare «Oh, Venezia!», e le cose che gli sono piaciute di più sono il vagone letto («una bella macchina da sonno, piena di tante belle leve»), i vicoli veneziani, il fatto che non c’erano macchine, né biciclette, né carrozze né carretti e il fatto che c’erano, invece, moltissimi gatti (un libro bellissimo, quasi assenzialista anche lui, tradotto, per Sellerio, da Daniela Galdo).

[uscito ieri su Libero]