O quasi

sabato 25 Gennaio 2014

si sente?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che il mio mestiere, uno pensa che uno che scrive dei libri abbia un’idea alta, magari, di sé, della sua intelligenza, e può darsi che ci sia della gente anche così, e fanno benissimo, ma io mi ricordo, una quindicina di anni fa, avevo appena cominciato a scrivere, io mi ricordo ero a Parma, in centro, in mezzo alla gente, avevo sentito uno che diceva «Oh, deficiente!», e mi ero voltato, convinto che mi chiamasse me e quello lì è stato un momento che io son stato contento, che all’inizio subito io non capivo perché ero contento, a rendermi conto di avere un’autostima, se così si può dire, ai minimi storici, e dopo a pensarci io ho pensato che scrivere, per me, io per mettermi a scrivere, ero già grande, avevo più di trent’anni, per provare a scrivere ho dato le dimissioni da un lavoro normale, che facevo il responsabile amministrativo di una ditta che lavorava in Francia, e ero nel mondo, dentro un organigramma, avevo il mio ruolo preciso, ero lì, a metà strada, impegnato a salire e scrivere, per me, aveva voluto dire uscire dall’organigramma, venirne fuori, rifiutare l’idea che dovevo sforzarmi per essere più bravo, più furbo, più ricco degli altri, per me scrivere voleva anche dire, in un certo senso, avere la patente del deficiente, per questo ero contento quando mi ero girato a sentire dire «Oh, deficiente» e devo dire che, a distanza di anni sono ancora convinto che, se uno non si compiace troppo, della propria deficienza, la consapevolezza della propria deficienza è una cosa buona.
Il discrimine (o un discrimine) è forse proprio quello: rendersi conto della propria deficienza, o non rendersene conto. Che essere intelligenti, secondo me, io non so se ne esistono, di persone intelligenti.
Ma magari mi sbaglio.
E la prima volta che sono entrato a Birkenau, non ad Auschwitz, a Birkenau, ci son stati davvero dei momenti che mi veniva da voltare le spalle, come quando, dopo che una guida, senza nessuna enfasi, ci aveva raccontato com’era organizzato il campo, e ci aveva detto che quelli che vedevamo, quella distesa di camini, era quel che era rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi, perché non c’era niente con cui accenderli, e sembra che li avessero fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e io mi ero chiesto se era vero, e se fosse stato vero sarebbe stato stranissimo il fatto che quel che era rimasto, quel che era durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, era la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte era marcita, alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ci avevano spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che avevamo visto le foto dei deportati in divisa, quella famosa, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che avevamo visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che avevi in testa tutta questa metafisica dell’orrore, che Birkenau, non Auschwitz, Birkenau, aveva una cosa stranissima, che visto da fuori poteva essere qualsiasi cosa, una fabbrica, una fattoria modello, un villaggio vacanze, e aveva un ordine, una specie di incanto geometrico, tedesco, anche nel nome, Birkenau, che dava ai sensi l’idea di qualcosa di leggero, di pulito, di buono, e era in Birkenau, dopo tutte queste cose, dicevo, il primo anno, io mi son trovato davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e mi ero accorto che quella gente lì era della gente normale, come me, che fumavan la pipa, che andavano al mare, che stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, che guardavano in macchina trattenendo un sorriso, che facevano il bagno nel fiume con i mutandoni, che andavano a cavallo, sulle altalene, che si vestivano bene per andar dal fotografo, ecco lì, allora, mi era venuto l’impulso di voltare le spalle, che in quelle cose normali, banali, la pipa, le altalene, avevo ritrovato le cose normali, banali, di casa mia, e mi eran venute in mente tre cose

[Credo che Libero oggi abbia pubblicato quel pezzo qua, o quasi]