Non smettere mai

sabato 19 Settembre 2015

Una volta, all’università, avevo preparato un esame così bene che quando poi ero andato a darlo la metà delle cose che sapevo non le avevo mica dette perché mi vergognavo. E qualche ora dopo, ripensandoci, ero stato contento del fatto che avevo avuto vergogna di far bella figura, e mi era venuto da pensare che ormai ero passato in una fase della mia vita che non volevo più far bella figura.
Qualche anno dopo, quando ho cominciato a pubblicare dei libri, mi è successo, come succede a chi pubblica dei libri, di presentarli in pubblico, e, non avendo l’abitudine a parlare in pubblico, non sapevo mai cosa dire e una delle cose che mi azzardavo a dire era che il protagonista del libri che scrivevo era uno che non voleva più far bella figura.
Qualche anno dopo, confortato dal fatto che queste presentazioni non erano poi disastrose, mi azzardavo a parlare di più, in pubblico, e una volta avevo attribuito questo fatto di non voler far più bella figura non al protagonista del libro, a me stesso, e per un po’ di tempo avevo detto che io, a un certo momento della mia vita, avevo smesso di voler fare bella figura.
Qualche anno dopo, presentavo un libro in una fabbrica e avevo detto la solita cosa che io non volevo più fare bella figura e una ragazza, impiegata nella fabbrica, mi aveva chiesto «Ma lei, quand’è che ha smesso di voler fare bella figura?», e io, mi ricordo, ci avevo pensato, e avevo detto «Forse non ho mai smesso».
E poi, quella sera lì, a ripensarci, mi ero compiaciuto del fatto che io ero passato in una fase della mia vita che non mi illudevo più di non voler fare bella figura.
Adesso, ieri mattina, tornavo da correre, mi è venuto da pensare che alcune cose che avevo detto in questi ultimi giorni, per esempio quando mi avevano chiesto come erano andati i miei incontri al Festivaletteratura di Mantova, io avevo risposto che erano andati benissimo, contento proprio del fatto che fossero andati benissimo e cercando di convincere il mio interlocutore che erano andati proprio benissimo, e ieri ho pensato a queste cose e mi sono un po’ allarmato per via del fatto che mi è sembrato di essere entrato in una fase della mia vita ci tengo molto a far bella figura.
E mi è sembrato di esser diventato un po’ come quegli impiegati milanesi di cui parla Luciano Bianciardi in una lettera a un suo conterraneo maremmano: «Ma cosa credi? – scrive Bianciardi nel settembre del 1954 – Che bastino tre mesi di Milano per distruggere trentadue anni di Maremma? Credi che io mi voglio proprio far mettere le mutande di latta da questi quattro coglioni? Perché i milanesi, credimi, sono coglioni come poca gente al mondo. La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida. E non se ne lamentano, pensa, anzi, credono di essere contenti. Se tu domandi ad un grossetano, ad un ricco, mettiamo a Pioppino Bianciardi, come se la passa, cosa ti risponderà: “Ah, porcamadonna, ‘un si campa, ‘un si va avanti” e così via. Ma fai la stessa domanda a un ragioniere di Milano, cinquantamila mensili. Che ti dirà: “Me la passo mica male”. Questa è la socialdemocrazia, in parole povere», scrive Bianciardi, e io, sarà l’età, io non solo mi voglio far mettere le mutande di latta da questi quattro coglioni, io mi sento proprio uno di loro, di questi quattro coglioni, devo dire, non che sia interessante.

[Uscito ieri su Libero]