Messico

sabato 20 Ottobre 2018

La prima partita di cui ho avuto coscienza come un fatto di una certa importanza è una partita che non ho visto né allo stadio, né in televisione, è una partita della quale ho sentito parlare. Era il 1970, e c’erano i mondiali in Messico, e io avevo appena compiuto sette anni e le partite non le guardavo, non so perché. Direi che non ero abituato, o che era uno spettacolo che i miei consideravano troppo cruento, per un bambino così piccolo, ma forse anche no, perché due anni prima, nel 1968, avevano portato me e mio fratello a San Siro a vedere la partita che avrebbe incoronato il Milan campione d’Italia per la nona volta. Mio babbo era milanista, i miei fratelli e mia mamma lo sono ancora, io per un po’ lo sono stato, adesso son degli anni che ho smesso, tengo solo per il Parma, che mi basta e mi avanza, come squadra alla quale tenere. Di quella prima partita vista allo stadio, a San Siro, a cinque anni, mi ricordo solo che quando il Milan aveva fatto gol, il gol che voleva dire che il Milan era campione d’Italia, io mi ero spaventato per il rumore che aveva fatto la gente. Un grido terribile, come se fosse successo chissà che cosa; mi ricordo mio nonno che si era voltato, c’era anche mio nonno, anche lui milanista, mi aveva strappato dalle mani la bandierina che avevo in mano e si era messo a sventolarla. Mi sembravan dei matti, e alla fine della partita, se mi avessero chiesto «Sei contento?», io avrei risposto che ero contento, solo che, dentro di me, più della contentezza il sentimento che mi animava era la paura che mi faceva l’impressione di essere in mezzo a dei matti. A pensarci, forse ero io, che nel ’70 non volevo vedere le partite del mondiale perché troppo cruente.
Di quei mondiali del Messico mi ricordo che, quando c’erano i quarti di finale, Italia – Messico, io ero in macchina con mio babbo che ascoltava la partita per radio, e ogni volta che l’Italia segnava, ha segnato 4 volte, in quella partita, l’Italia ha vinto 4 a 1, mio babbo alzava le braccia e mia nonna lo sgridava: «Tieni sodo il volante!». Ma lo diceva in un modo che non era arrabbiata, lo diceva come se fosse contenta; era un periodo, era il 1970, che noi, come famiglia, eravamo contenti: avevamo una bella macchina, svedese, una Volvo, mio babbo aveva una piccola ma florida impresa edile, l’Italia, come nazione, andava verso un progresso che ci sembrava indefinito e ai quarti di finale dei mondiali del Messico vincevamo 4 a 1 contro il Messico, andava tutto come doveva andare. Della partita successiva, di quei mondiali, Italia Germania 4 a 3, non mi ricordo niente, mentre mi ricordo benissimo la finale, Brasile Italia 4 a 1, perché mio babbo, poi, negli anni, di quella partita ha parlato moltissime volte.
Non si spiegava come mai Valcareggi, l’allenatore, invece di fare entrare Rivera al posto di Mazzola all’inizio del secondo tempo, come aveva fatto contro Messico e Germania (e Rivera aveva segnato sia contro il Messico che contro la Germania, Mazzola invece no, diceva mio padre), lo aveva fatto entrare a sei minuti dalla fine, quando il Brasile vinceva già 3 a 1. «Che, in sei minuti, cosa vuoi fare?», diceva mio babbo. A mio babbo piaceva poi molto sottolineare una cosa che non so se sia vera, che quando la nazionale era tornata in Italia, all’aeroporto, a Fiumicino, gli avevan tirato i pomodori. Erano arrivati secondi nel mondo, e gli avevano tirato i pomodori. Ecco io, allora, il 14 giugno del 1970, quando mio babbo lasciava il volante della sua Volvo per esultare perché aveva segnato Rivera, io avevo sette anni e pensavo che tutto stava andando bene e che sarebbe continuato a andar bene per sempre.
Cinque giorni dopo, il 21 giugno del 1970, quando quel benessere calcistico era svaporato per via, forse, del fatto che Valcareggi aveva fatto giocare a Rivera solo 6 minuti, sapevo già che non era così, che le cose non è che ti vanno bene perché sei tu, perché sei italiano e sei bello. Non abbiamo più avuto una Volvo, per dire, in famiglia.
E adesso, che siamo nel 2018, e che sono passati 48 anni, da quei mondiali, e che io di anni ne ho 55, adesso io, quando mi sembra di vivere un periodo che le cose non vanno benissimo, quando faccio fatica, quando mi devo dire, nella mia testa, «Dài dài dài dài dài», mi sembra che sia normale, perché son dei decenni, che funziona così, nella mia vita: bisogna fare fatica.
Quando invece mi sembra che vada tutto bene, quando tutto mi sembra funzioni alla perfezione, io, sarò strano, ma non sono contento: mi vien da agitarmi, da ribellarmi, mi aspetto qualcosa che mi rimetta al mio posto. È una cosa che ho scritto in uno dei primi romanzi che ho poi pubblicato, la storia del filo da torcere, che quando lo trovi lo torci, e quando l’hai torto ne cerchi, e non hai mai finito, mi sembra. E di quei mondiali messicani, e dei calciatori italiani che vi hanno partecipato, Albertosi, Riva, Rivera, Mazzola, Boninsegna, Burgnich, Facchetti e di tutti gli altri, che nel gergo dei commentatori sportivi venivano chiamati “messicani”, c’è un’ultima cosa, che voglio dire, e è successa molti anni dopo, quando facevo le superiori e era un periodo che le squadre italiane non potevano assumere calciatori stranieri, perché la nazionale italiana, ai mondiali del ’74 e del ’78, era andata male, e si era trovato questo rimedio, di chiudere le frontiere, come si diceva allora. E un mio compagno di classe appassionato di baseball, che si chiama Roberto, e che si era messo a seguire un po’ il calcio perché il calcio a noialtri maschi della nostra di classe piaceva, lui, una volta, nel 1997, quando il Milan aveva vinto il decimo scudetto con Albertosi, come portiere (io tenevo ancora per il Milan), questo mio compagno di classe, Roberto, mi aveva detto: «È comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri». «Che stranieri?», gli avevo chiesto io. «Come che stranieri?», mi aveva detto lui, «Albertosi». «Ma Albertosi non è mica straniero», gli avevo detto io. «Come no, aveva detto lui, è messicano».E io, sul momento, non sapevo come dirglielo, a Roberto, che Albertosi era nato a Pontremoli. Era uno sbaglio che mi sembrava così bello, il suo, che mi veniva da dargli ragione. «È vero, Roberto, è comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri».

[uscito ieri sulla Verità]