Le palpebre

lunedì 2 Novembre 2009

che-la-festa-cominci

[Copio qua sotto una recensione al nuovo romanzo di Ammaniti pubblicata ieri su Libero. È un po’ lunga]

Mi sembra che il modo migliore per dare un’idea del romanzo Che la festa cominci, di Niccolò Ammaniti, appena uscito per Einaudi Stile libero (pp. 328, euro 18,00), sia paragonare le metafore e le similitudini usate da Ammaniti e quelle usate dal finlandese Kari Hotakainen nel suo romanzo Via della Trincea (traduzione di Nicola Rainò, p. 366, euro 16,00), appena uscito anche lui per Iperborea. Fare proprio due elenchi.
In Ammaniti: «assomigliava a una testuggine a cui hanno sfilato il guscio e infilato una tunica bianca» (pag. 22); «si copriva di gioielli etnici neanche fosse una principessa berbera il giorno dell’incoronazione» (pag. 49); «in quel momento era spiritoso e vivace come un profugo ugandese» (pag. 118); «Fabrizio si strappò dalla spalla un arancino come se fosse una sanguisuga infetta» (pag. 132); «Elena Paleologo Rossi Strozzi sembrava /…/ un pigmeo con il verme solitario» (pag. 134); «la Somaini emise un verso simile al richiamo del chiurlo in amore» (pag. 135); «da sotto il cappuccio spuntavano /…/ due occhi grigi e freddi come una giornata d’inverno sul mar Caspio (pag. 138); «Fabrizio adorava le donne idiote, si abbeverano alla sua personalità come frisone a un fontanile” (pag. 150); «il libro era salito in vetta alle classifiche con la stessa violenza con cui lo space shuttle entra nella ionosfera» (pag. 152); «una modella era così bianca che sembrava morta da tre giorni» (pag. 162); «per poco non inciampò in una radice spessa quanto un anaconda» (pag. 219); «Sasà Chiatti con i suoi novanta chili ondeggiò e parve resistere all’impatto, ma poi come un grattacielo a cui hanno minato le fondamenta cadde giù» (pag. 271).
In Hotakainen: «Lei /…/ sposta da un lato all’altro le lunghe gambe come oggetti preziosi» (pag. 17); «Ho appreso i segreti del sesso come un pinocchio il sillabario, con grande fatica, e picchiando la crapa contro il muro».(pag. 21) Mi ha detto /../ che ero un patetico lavapiatti, /… / capace solo di starsene rintanato in casa a cuocere a fuoco lento il suo rancore come uno stufato (pag. 22). «Era la prima volta che mi rendevo conto che l’avvilimento mi serrava la testa come una morsa. (pag. 39)»; «le parole degli altri mi scivolano addosso come acqua sulle penne di un’anatra» (pag. 51)»; «i pugni crescono alla velocità dei pini, ci vogliono vent’anni per il pieno sviluppo» (pag. 55); «Lei ha guardato il frutto del mio duro lavoro come se si trattasse di una salsiccia avariata» (pag. 56); «Il rutto dopo la birra echeggia come un richiamo per la specie» (pag. 78); «I tosaerba ronzano come piccoli elicotteri, l’universo sonoro ricorda l’inizio di Apocalypse Now di Coppola. Il profumo dell’erba tagliata, mescolato all’aroma di carne arrostita, è un balsamo per la mia solitudine» (p. 84).
Adesso, a parte le salsiccia avariata, è singolare che l’esperienza di un mio quasi coetaneo finlandese mi sia più familiare dell’esperienza di un mio quasi coetaneo italiano.
Non ho mai visto una testuggine a cui hanno sfilato il guscio, non saprei dire quanto e di che gioielli etnici si copra una principessa berbera il giorno dell’incoronazione, non conosco nessun profugo ugandese, non ho mai visto un uomo strapparsi una sanguisuga, né tantomeno una sanguisuga infetta, né, a dire il vero, ho mai visto una sanguisuga in generale, non so come sia dal vivo un pigmeo, figuriamoci un pigmeo con il verme solitario, non ho mai sentito il richiamo del chiurlo in amore, non ho idea di come sia una giornata d’inverno sul mar Caspio, non saprei dire come si abbeverano le frisone ai fontanili, non so niente della violenza con cui lo space shuttle entra nella ionosfera, non ho mai visto nessuno morto da tre giorni, non saprei dire neanche per approssimazione quanto sia spesso un anaconda e mi riesce difficile immaginarmi un uomo che crolla come un grattacielo a cui hanno minato le fondamenta.
Il modo, come un pinocchio sillabario, in cui si apprendono i segreti del sesso, la morsa dell’avvilimento, in testa, l’impermeabilità delle penne di un’anatra, i pugni che crescono alla velocità dei pini, lo stufato del rancore, i rutti dopo la birra, il ronzio degli elicotteri (abito vicino a un aeroporto), i lamenti isolati li conosco bene; le salsicce avariate meno, ma conosco una persona che sposta le gambe così, come se fossero oggetti preziosi.
Tre anni fa un mio amico mi ha letto al telefono un pezzo di Flannery O’Connor preso da Nel territorio del diavolo, Sul mistero di scrivere (minimum fax 2002, 150 pp., 7 euro e 50, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, ed. it. a cura di Ottavio Fatica). Il giorno dopo sono andato in libreria e ho comprato il libro. Il pezzo che mi aveva letto il mio amico era questo «La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli. /…/ Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York, da una signora russa che ha fama di essere un’ottima insegnante. Mi scriveva questo mio amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe a osservare le cose».
Torna in mente una cosa che scriveva Mandel’štam nel suo Discorso su Dante. «Ogni parola, – scriveva – è un fascio di significati che, lungi dal convergere in un medesimo punto ufficiale, s’irradiano in diverse direzioni. Dire “sole” significa compiere un lunghissimo viaggio, al quale siamo però a tal punto abituati che viaggiamo dormendo. La poesia si distingue dal linguaggio automatico appunto perché a metà del viaggio ci riscuote e ci sveglia. La parola ci appare allora molto più lunga di quanto credessimo, sicché ci rammentiamo che parlare significa essere sempre in cammino».
«Dante, – scrive Mandel’štam, – arriva a chiamare le palpebre le labbra degli occhi», e così facendo toglie le palpebre dalla nostra lettura automatica e ce le fa vedere come se le avesse dipinte.