La vera pizza napoletana

lunedì 20 Ottobre 2008

Da tre anni, tra la fine di agosto e i primi di settembre, vado a Seneghe, a un festival di poesia, dove devo scrivere i diari.
Cioè io a vado a tutti gli incontri e prendo nota di quello che vedo e che sento e poi la sera, in dieci minuti, racconto quello che è successo quel giorno.
È un lavoro anche abbastanza impegnativo, uno deve andare a guardare e poi deve scrivere cinque cartelle in un giorno, e poi correggerle, che vuol dire rileggere e mettere dentro le correzioni, e poi rileggerle ancora e mettere dentro le correzioni, e rileggerle un’altra volta e mettere dentro ancora le correzioni e così per sei o sette volte finché non salta fuori una cosa che ti sembra decente e che si possa leggere in pubblico senza voler sprofondar sotto terra per la vergogna.
E anche quest’anno, a fine agosto, ho fatto così, sono andato lì, il primo giorno, e ho visto, ho scritto, ho corretto e ho poi letto, e la cosa ha funzionato, come gli altri anni.
Poi il secondo giorno mi è successa una cosa che ho scritto, ho riletto, e poi basta.
E poi tutto il giorno pensavo Ma perché hai scritto una cosa del genere? E perché adesso vai a leggerla?
Ero tentato di rileggere ancora, ma non volevo rileggere ancora perché se avessi riletto ancora io poi quella cosa in pubblico probabilmente non l’avrei letta, invece la volevo leggere.
Comunque alla fine sono andato e l’ho letta, e la cosa che ho letto è qua sotto (è un po’ lunga):

Di notte a Seneghe, se vi sedete sul terrazzino del bed and breakfast dove dormite, si sentono i cani che abbaiano. E qualche macchina, rara, che passa, intorno all’una e quarantasei, e avete, un caso, un’ora e quarantasei minuti di autonomia nel computer. E vi chiedete Che cosa è successo oggi? E vi vengono in mente un sacco di cose, per esempio un gioco che facevate con una morosa, che non è più la vostra morosa, è diventata la madre di vostra figlia, ma quand’era la vostra morosa, i primi tempi, tutte le notti, prima di andare a dormire, vi chiedevate l’un l’altro Cos’è successo, oggi? E a raccontare ognuno la propria giornata, e eran giornate che eravate stati sempre insieme, sembravano due giornate diverse, e era bello.

Oggi è successo che Franc Ducros ha detto che la sua presenza in Sardegna ha il valore di un esorcismo, e voi non avete capito, io, che sono quel voi lì, non ho mica capito, perché non si doveva capire. Ed è cresciuto nell’odore di cuoio perché suo padre era sellaio. E porta in giro la sua bella faccia francese e il suo bell’italiano e i suoni che dice non mi entrano in testa, son troppo grandi, son come più grandi dei buchi delle mie orecchie. è qui per un esorcismo.

E Gabriele Frasca a rileggere le cose che ha scritto gli si muove un sentimento che si chiama vergogna. E Pasternàk, di sé, diceva lo stesso. E tutte le raccolte poetiche che ha pubblicato Pasternàk pensava che era meglio se non le pubblicava. E l’unica cosa che stimava, di quello che aveva fatto, era un romanzo famoso intitolato il dottor Zhivago dove i personaggi, fateci caso, non sanno parlare.

E Frasca dice che lui cerca quel nucleo duro in cui siam tutti uguali. E che siamo tutti sopravvissuti a qualcuno al quale ci auguravamo di non sopravvivere. E voi, che sono poi io, pensate a una volta, a Verona, in un circolo arci che aveva ancora le mattonelle della macelleria che era stata prima, e vi era stato chiarissimo il fatto che scrivere, si scrive per i morti. Che è una cosa che capirla è difficile e spiegarla è impossibile, ma è così di sicuro.

E dopo, come si dice, vi sorprende la fame. E andate in pizzeria e mangiate una Napoli. E vi tornano in mente i pizzaioli che ci son sotto casa vostra, a Bologna, e la settimana scorsa che avete ordinato una Napoli e loro vi han detto Ba bene. E son pachistani, e hanno il forno elettrico, e si chiamano pizza mimi, e poco tempo fa han fatto stampare un volantino con sopra scritto Pizza mimi la vera pizza napoletana.

E l’ultima volta che avete ordinato una Napoli, che loro vi han detto Ba bene, dopo un’ora che non l’avevan portata voi avete telefonato, e loro vi han detto che avevate ragione, e che avevan finito le acciughe, e che se potevate ordinare qualcos’altro, e voi avete detto che una margherita andava benissimo, e loro vi han detto che in dieci minuti sarebbe stata pronta, e dopo dieci minuti erano lì.

E dopo, più tardi, alle due e quindici, sul terrazzino del bed and breakfast dove dormite, quando di autonomia sul vostro computer ne è rimasta un’ora e zero sette, sulla parete c’è un geco che sta puntando una farfallina, e ha una coda che si muove a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, come la coda di un gatto quando punta un topo.

E lentissimamente, con cura, un passettino ogni venti secondi, si avvicina alla preda, e poi fermo. E poi un altro passettino, e poi fermo, e poi dopo un po’ muove solo la coda, a destra e a sinistra, e a destra e a sinistra, e a destra e a sinistra. E fa poi lentissimamente un altro passetto, e è quasi arrivato. E la farfalla, tranquilla come una pasqua, prende su e vola via. E il geco fermo, immobile, come un brigante. E chissà cosa pensa.

E oggi poi dopo avete sentito il più grande chitarrista campidanese del mondo. E quegli altri cantavano, e improvvisavano. E a guadarli sembrava lo spogliatoio di un pugile prima di un incontro di boxe. O l’anticamera di un notaio per una complicata questione testamentaria. O di un chirurgo che sta operando qualcuno che è stato ferito in un duello. O in uno scontro a fuoco. E era bellissimo.

Ed è stata la prima volta che avete visto qualcosa di sardo, di musica sarda, dall’inizio alla fine, e vi è venuto in mente Bachtin, quando scriveva che il novanta per cento dei discorsi che facciamo sono discorsi di altri, son discorsi ripetuti, e come è difficile sentir delle cose che vengono dette, davvero, e voi, che poi sono io, pensate che stasera è successo, e allora è una cosa che, come sempre, fa ridere, e piangere.

E poi vi fermate a parlare con un vostro amico e scendete a vedere i racconti della mezzanotte che sono già quasi finiti. E sentite una musica, nella penombra, e vedete la gente, e vi vien da pensare che son cose da giovani. E vi ricordate la meraviglia della prima volta che siete stati in Sardegna, quando un libraio di Oristano vi ha fatto dei dolci col miele che sembravano dei dischi volanti.

E vi viene in mente l’inizio del capitolo sesto delle Anime morte di Gogol’, che è questo:

Prima, tanto tempo fa, negli anni della mia giovinezza, negli anni che sono volati via, e che non ritornano, della mia infanzia, mi piaceva arrivare per la prima volta in un luogo sconosciuto: era uguale che si trattasse di un piccolo villaggio, di una povera cittaduzza distrettuale, di un paese, di un borgo: il curioso sguardo infantile scopriva in quel luogo molto di interessante. Ogni costruzione, tutto ciò che portava in sé l’impronta di una qualche evidente particolarità, tutto mi tratteneva e mi colpiva. Fosse un edificio statale di pietra, di quella architettura che conosciamo, con le finestre per metà finte, che svettasse solo soletto tra i tronchi d’albero squadrati delle misere casettine a un piano, fosse una cupola tonda e ben fatta, tutta coperta di bianchi fogli di zinco, che si innalzasse su una nuova chiesa biancheggiante come la neve, fosse un mercato, o un bellimbusto distrettuale piombato in città, niente sfuggiva alla fresca, acuta attenzione e, sporgendo il naso dalla mia carrozza di passaggio, io guardavo sia il taglio mai visto di una qualche finanziera, sia le cassette di legno piene di chiodi, piene di zolfo, che gialleggiava da lontano, piene di uva passa e sapone che balenavano dalla porta di una vecchia bottega d’ortolano insieme alle scatole di caramelle secche moscovite, e guardavo l’ufficiale di fanteria che camminava in disparte, sbalzato da Dio sa quale governatorato alla noia del capoluogo distrettuale, e il mercante che sfrecciava in siberiana sul suo calesse veloce, e venivo trascinato, nei pensieri, dietro di loro, con le loro povere vite. Un funzionario del capoluogo di governatorato passava lì vicino e io già pensavo: dove va? a una serata? o da un suo fratello? o a casa sua, per sedersi mezzora sul terrazzino finché non sia addensato del tutto il crepuscolo, e cenare di buonora con la mammina, con la moglie, con la sorella della moglie e con tutta la famiglia, e che di cosa parleranno quando la ragazza di servizio, con la sua collanina, o un ragazzo con una giacca pesante, porterà già, mangiata che sia la minestra, la candela di sego nel vecchissimo candelabro di famiglia. Avvicinandomi al villaggio di qualche possidente, guardavo con curiosità all’alto e stretto campanile di legno, o alla grande e scura e vecchia chiesa di legno. Allettanti balenavano, da lontano, tra il verde degli alberi, i rossi tetti e i bianchi camini della casa del possidente, e io aspettavo impaziente che si dissolvessero dai due lati i giardini che la nascondevano e essa si mostrasse tutta con il suo, allora, ahimé, tutt’altro che volgare aspetto esteriore, e da quel che vedevo mi sforzavo di indovinare che tipo fosse il proprietario, grasso, forse, e con dei figli, o con una serie di sei femmine con voci fanciullesche squillanti di riso, e con i loro giochi, e con la minore sempre più bella di tutte, e avevan gli occhi scuri, ed era un allegrone, lui, o era tetro, come settembre nei suoi ultimi giorni, e guardava al calendario e parlava, annoiando i giovani, di segale e frumento.
Adesso indifferente passo per qualsiasi villaggio sconosciuto e indifferente guardo il suo volgare aspetto esteriore; al mio sguardo freddo niente è accogliente, niente mi diverte e quello che negli anni passati muoveva, vivo, sul mio visto, riso e inarrestabili discorsi, adesso striscia accanto e le mie labbra immobili conservano silenzio indifferente. Oh, giovinezza mia! Oh, mia freschezza.

E Gogol’ quando lo scriveva aveva poco di più di trent’anni. E voi, che poi sono io, ne avete quarantacinque. E pensate che siete vecchio. E è la prima volta che lo pensate davvero. E è successo qui.