La solitudine di uno scrittore

lunedì 26 Gennaio 2015

erri de luca, la parola contraria

La parola contraria è un piccolo libro di Erri De Luca appena uscito per Feltrinelli che si apre con il testo della denuncia depositata contro lo stesso De Luca nel settembre del 2013 dalla LTF, ditta che sta costruendo la linea ad Alta Velocità Torino – Lione. In quella denuncia De Luca viene accusato di aver istigato «a sabotare e danneggiare il cantiere Tav LTF rilasciando le seguenti dichiarazioni: “la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti /…/ hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa”».
Non capisco niente di faccende giudiziarie, e, per me, la parte del libro in cui mi sembra si prefiguri la difesa di De Luca all’imminente processo (la prima seduta è fissata per il 28 gennaio), quella parte in cui De Luca dice, tra le altre cose, che «quando in uno stadio del Nord Italia si incita la natura invocando “Forza Vesuvio” si sta istigando un vulcano all’eruzione», e che la sua frase «La Tav va sabotata» «rientra nel diritto al malaugurio», e che lui «rivendica il diritto di adoperare il verso sabotare» in un senso «non ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri di questo caso», questa parte, dicevo, è la parte che mi ha interessato meno, di questo piccolo libro, del quale mi ha interessato molto l’inizio, quando De Luca dice che, quand’era giovane, Omaggio alla Catalogna di Orwell gli ha ispirato «fraternità» per gli anarchici spagnoli, «è stato il primo picchetto piantato di una mia tenda accampata fuori da ogni partito e parlamento». E quando dice che un giovane di oggi non ha bisogno della guerra di Spagna, «gli basta sapere che esiste una volontà di resistenza civile, popolare», e che «Se ci fosse nella sua occasione di lettura un Orwell di oggi che la inneschi, vorrei essere io».
Cioè, lui, dice, vorrebbe essere come Orwell. Che è una cosa che quando io l’ho letta ho pensato «Ma Orwell, avrebbe voluto essere come Orwell?». E mi è venuta in mente la bella biografia che ad Orwell ha dedicato Luciano Marrocu (è uscita nel 2009 e si intitola La solitudine di uno scrittore), dove si legge che Orwell, subito dopo l’uscita dell’Omaggio alla Catalogna, nel 1938, ha aderito all’Independent Labour Party (ILP), giustificando quest’adesione «con l’impossibilità per uno scrittore di “tenersi fuori dalla politica”». E il titolo di quella biografia di Orwell, La solitudine di uno scrittore, mi è suonato singolarmente in contrasto con la quarta di copertina del libro di De Luca: «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì potranno. Nell’aula e fuori, isolata è l’accusa». Ma al di là di queste contraddizioni, che mi piacciono, non capisco l’aspirazione di De Luca a voler essere un Orwell dei nostri tempi: un po’ per il voler essere, che quando, qualche anno fa, usciva una nuova rivista e mi capitava tra le mani, trovavo quasi sempre un editoriale le cui prime parole erano: «Questa rivista vuole essere», e dopo non so cosa c’era scritto perché io mi fermavo lì, a leggere, che avevo l’impressione che una cosa che voleva essere era già di per se su una strada che non mi interessava, un po’ perché il fatto che uno che scrive possa aspirare a essere qualcosa o qualcuno, io, proprio, non riesco a spiegarmelo. Il poeta Wystan Hugh Auden, che, come Orwell, era stato in Spagna ai tempi della guerra civile, e che, tornato a Londra, aveva pubblicato un poema intitolato Spain 1937 che Orwell considerava «una delle poche cose decenti che sono state scritte sulla guerra di Spagna», quel poeta lì, in un discorso del 1956 intitolato Fare, conoscere, giudicare, e pubblicato in italiano da Adelphi in La mano del tintore, ha scritto: «Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre» (la traduzione è di Gabriella Fiori). Questa frase di Auden a me fa venire in mente la frase che l’anno scorso mi è rimasta probabilmente più impressa tra tutte quelle che ho letto, l’ha scritta Giorgio Agamben (in Il fuoco e il racconto) e la frase dice che esser poeta significa «essere in balia della propria impotenza»; che è una frase che mi sembra dica esattamente quel che succede delle volte. C’è un mio amico che fa il giornalista e che scrive anche dei romanzi, una volta mi ha detto che quando scrive i romanzi lui li scrive di notte, dopo aver messo a letto sua figlia e tutto il resto, e piega la testa sul romanzo magari all’una dopo mezzanotte, e quando la tira su, guarda fuori dalla finestra, è mattino. E io ho pensato che è come il tempo del gioco quando eri bambino. Questo, nella mia esperienza, succede a quelli che scrivono i libri: non volere essere niente.

[uscito ieri su Libero]