La dipartita, il caro estinto

sabato 26 Maggio 2018

Lo scrittore e architetto Aldo Buzzi era amico del disegnatore Saul Steinberg, e una volta, erano insieme, Buzzi fissava il forno, dentro il quale cuocevano delle capesante, e sembra che Steinberg gli abbia detto «Il forno è la tua televisione», e che Buzzi abbia risposto «Ho un debole per le capesante», e che Steinberg abbia detto «Tu hai un debole per quasi tutto». E Un debole per quasi tutto è diventato il titolo di una raccolta degli scritti di Buzzi nella quale si legge un dialogo tra lo stesso Buzzi e un signore anonimo che dice: «Ho preparato una proposta da sottoporre al ministro della giustizia per punire una categoria di persone che mi dà fastidio in modo particolare.» «Per esempio?», chiede Buzzi. «Per esempio quelli che, dopo aver nominato New York, se devono nominarla una seconda volta, dicono la Grande Mela. Per questi la pena dovrebbe essere l’ergastolo». «Accidenti!». «Sì, ma non solo per questi. Anche per quelli che, dopo aver nominato il dollaro, se devono nominarlo una seconda volta, dicono il biglietto verde; o, se devono nominare l’oro una seconda volta, dicono il metallo giallo. E stessa pena per quelli che dopo il pallone, invece di ripetere il pallone dicono la sfera di cuoio. Ergastolo senza le solite riduzioni di pena» aggiunge il signore. «E per quelli che dicono il papa – una paroletta breve che fa risparmiare tempo e fatica – e poi si buttano su Giovanni Paolo Secondo?». «Ergastolo» dice Buzzi. «Bravo. E per quelli che, dopo aver nominato Gelli, aggiungono sempre l’ex maestro venerabile della loggia P2?». «L’ergastolo come sopra» dice Buzzi. «No, la fucilazione. Sto lavorando anche a un’altra proposta per punire tutti quelli che invece di ‘i gnocchi’ scrivono ‘gli gnocchi’. Non c’è nessuna difficoltà a pronunciare i gnocchi, come non ci sono difficoltà a pronunciare ignoto, ignorante, ignobile». «Ahi! Ahi! E chi introduce nei cervelli queste assurdità?». «Sono certe maestre… le figlie di quelle che un tempo insegnavano a scrivere: ‘carne in iscatola’. Mi ricordo una carne in iscatola che era rimasta nelle prime pagine di Tempo di uccidere di Flaiano. Ho sostituito l’iscatola con una normale scatola e Flaiano mi ha ringraziato. La saluto. Parto. Vado in Isvizzera… Non si agiti. Sto scherzando. Buon lavoro».
Una delle cose che ho raccontato più spesso, nei miei interventi pubblici, è lo stranissimo caso della prima traduzione italiana del romanzo dell’americano Bret Easton Ellis American Psycho. In questo romanzo, nella prima pagina, compare tre volte la parola «Bus», che significa, come si sa, «Autobus». Nella prima traduzione italiana di American Psycho, il traduttore aveva tradotto il primo Bus con «Autobus», il secondo con «Corriera», il terzo con «Torpedone».
Perché ha fatto così, quel traduttore, perché a scuola, la maestra, per capire il bagaglio lessicale degli allievi diceva di non fare ripetzioni e di usare dei sinonimi. Ma che bisogno ha, Bret Easton Ellis, di mostrare il proprio bagaglio lessicale? E che sinonimo sarebbe, di autobus, corriera, che sappiamo benissimo che sono due cose diverse? Quanto a torpedone, ho raccontato di questa traduzione a un mio conoscente che mi ha detto che se lui leggesse, in un romanzo, la parola «torpedone» gli verrebbe da pensare che è successo qualcosa di brutto. È una parola che mette in agitazione, torpedone, lasciamola stare. Anche perché, quel torpedone lì, alla fine della pagina, è sempre lo stesso autobus che c’era all’inizio. Stiamo calmi. Solo che noi, l’unico posto in cui scriviamo tutti, è la scuola, e siamo convinti che la scrittura, e la letteratura, sia una cosa che ha a che fare con le regole che ci hanno insegnato a scuola, e quando cerchiamo di scrivere una cosa letteraria, per prime applichiamo le regole del bello scrivere (scolastico) prima tra tutte, forse, questa di non fare ripetizioni, come se la ripetizione non fosse una figura retorica come le altre che, se la si usa bene, può essere potentissima. Io ho avuto la fortuna di tradurre, e di leggere in pubblico più di una volta, un libro straordinario, La morte di Ivan Il’ič, di Lev Tolstoj.
Tolstoj, in quel libro lì, ci fa vedere la morte di Ivan Il’ič come se vedessimo la morte per la prima volta, e benché questo Ivan Il’ič sia un funzionario antipatico, odioso, senza nessuna particolare qualità umana e intellettuale, la sua morte ci sgomenta, ci fa male, e, in quel racconto, Tolstoj usa la parola «morte» come se non fosse una parola, ma un martello. Ci picchia, con la «morte», ce la ripete in faccia tante di quelle volte che ci fa male. E io, da traduttore, che servizio avrei reso, a Tolstoj, se, in qualche caso, avessi cambiato la sua «morte» con «dipartita»? O se, invece della «Morte di Ivan Il’ič», avessi intitolato il libro «Il caro estinto Ivan Il’ič». Non sarei stato bravo, secondo me.
C’è un poeta straordinario, di Santarcangelo di Romagna, si chiama Raffaello Baldini, scriveva delle poesie in dialetto, e le traduceva lui in italiano, e venivano fuori delle cose così: «Ventitré anni, carina, innamorata, | ma i suoi non volevano, suo padre delle scenate, | per settimane, mesi, una guerra, lei | sempre più innamorata, e l’altra sera | è andata a letto presto, si è chiusa in camera, | e la mattina non s’è svegliata più. | Che uccidersi non va bene, non si può, però | ‘sta bambina, adesso, come farà il Signore | a mandarla all’inferno?». L’artefice della fama di Baldini, l’attore Ivano Marescotti, che andava in giro a recitare le sue poesie e che l’ha convinto a scrivere i testi teatrali che gli hanno dato la popolarità che adesso ha, racconta che una volta ha letto delle poesie di Baldini in Romagna e che, alla fine, una signora lo è andato a ringraziare e gli ha detto «Mmi son piaciute tanto, ma tanto, ma eran così belle, ma così belle, non sembravano neanche delle poesie». Ecco io, una volta, undici anni fa, ho fatto l’attore, in teatro, e il mio regista, un grande regista, Gigi Dall’Aglio, la cosa che mi diceva più spesso, durante le prove, era: «Non recitare». Allora, l’altra volta abbiamo detto che William Somerset Maugham diceva che ci sono tre regole, per scrivere un romanzo, e che, purtroppo, nessuno sa quali siano. Questa volta aggiungiamo che se il romanzo che avete scritto, o che state scrivendo, non sembra un romanzo, non è detto che sia un brutto segno.

[Uscito ieri sulla verità]