Inabbracciabili

domenica 20 Gennaio 2013

Nel 1884, quando aveva 56 anni, e aveva già avuto tredici figli, e aveva già scritto Guerra e Pace, e Anna Karenina, e del suo insegnamento avevan già fatto una specie di religione che avrebbe influenzato, tra gli altri, anche Ghandi, Lev Nikolaevič Tolstoj ha scritto: «Se c’è qualcuno che dirige le cose della vita, vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata».
E questa cosa, quando uno la legge, ha delle conseguenze.
Io, per esempio, l’ho letta lunedì 14 gennaio, prima di addormentarmi, e il giorno dopo, martedì 15, quando sono andato a farmi riparare il computer, intanto che aspettavo che i gentilissimi riparatori di computer da cui vado finissero di ripararmelo, mi son seduto sulla seggiolina imbottita che c’è nel loro negozio, ha appoggiato la schiena e la testa, ho sospirato e ho pensato che tutto quel vuoto, intorno, faceva impressione.
C’era freddo, e era un periodo, quattro giorni fa, che avevo a che fare con una specie di marcia indietro che ogni tanto, ciclicamente, mi sembra mi guidi, e avevo questa sensazione di vuoto, di niente, di silenzio, di giornate senza parlare con nessuno, e mi era tornata in mente la frase che avevo letto il giorno prima e che Lev Tolstoj aveva scritto nel 1884, a 56 anni: «Se c’è qualcuno che dirige le cose della vita, vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata».
E che i libri, mi era tornato in mente, quelli belli, e gli scrittori, quelli bravi, fan questo effetto che, non so come dire, ti feriscono.
E mi era venuto in mente Giorgio Manganelli, che in un pezzetto inedito recentemente pubblicato in rete dalla figlia Lietta scriveva: «Un grande libro è terribile, perché la sua storia dentro di noi non si spegnerà mai; e sarà la storia della nostra libertà. Una biblioteca è molte, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia», ha scritto Manganelli, e io, in questi ultimi mesi, è una cosa che mi viene in mente spessissimo, insieme a un’altra cosa, che ha scritto Lev Tolstoj quando aveva 56 anni che mi viene in mente spesso in questi ultimi giorni e insieme a una cosa che ha scritto Velimir Chlebnikov, che mi è venuta in mente spessissimo da quanto l’ho letta, più di venti anni fa: «La legge delle altalene prescrive / che si abbiano scarpe ora larghe, ora strette. / Che sia ora notte, ora giorno. / E che i signori della terra siano ora il rinoceronte, ora l’uomo».

***

Qualche mese fa ho letto una frase di Roman Jakobson che citava «un grande poeta russo mai esistito, Koz’ma Prutkov, che affermava: “Nessuno abbraccia l’inabbracciabile”», e mi è venuto da pensare al mio professore di letteratura russa, Gian Piero Piretto, che a Milano, la scorsa primavera, doveva parlare di Memorie di un pazzo, di Gogol’, e si era definito un appassionato, di Gogol’, e io avevo pensato che aveva ragione, e che dei grandi scrittori come Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Puškin e Čechov, nessuno poteva dirsi un esperto, eravamo tutti degli appassionati, perché si può essere esperti di tante cose, di cinema, di meccanica, di elettronica, di statistica, di raccolta differenziata, di agricoltura, di calcio, di pallacanestro, di sport estremi, di pattinaggio in linea, di tutto, tranne forse che di letteratura perché i grandi scrittori, i grandi libri, sono, forse, come diceva quel grande poeta russo mai esistito, Koz’ma Prutkov, inabbracciabili.
Allora è per quello che dopo, qualche mese fa, quando Francesca Vittani, del circolo dei lettori di Torino, mi ha chiesto di trovare un titolo per la rassegna che il circolo mi aveva proposto di organizzare sulla letteratura russa dell’ottocento, io ho pensato che quello lì, inabbracciabili, sarebbe stato forse un titolo sensato.
E poi, quando si è trattato di raccontare ai giornali perché pensavamo che avesse senso, fare una rassegna sulla letteratura russa dell’ottocento, perché quando fai delle cose come una rassegna dopo i giornali, che hanno ragione, ti chiedono come mai le hai fatte, come quando pubblichi un romanzo che gli metti un titolo che dopo ti chiedono «Come mai questo titolo?», che hanno ragione, quando ho dovuto spiegare che senso ha fare questa rassegna sulla letteratura russa dell’ottocento al circolo dei lettori di Torino, mi è venuto in mente una cosa che ha scritto Peter Bichslel, che ha scritto una volta: «Tutti noi abbiamo vissuto momenti di disperazione di fronte alle prime pagine dei grandi romanzi russi, quando non capivamo chi fosse lo zio e chi il fratello e se la zia fosse la moglie dello zio e se fosse il fratello o l’amico a essere innamorato della figlia e di chi fosse figlia la figlia. Siamo allenati e sappiamo come si affronta il problema: si continua a leggere, prima o poi si capirà», ha scritto Bichsel, e a mi viene da dargli ragione: è vero, la letteratura russa, fan dei libri anche così grossi, fa un po’ paura. Solo che, lì vale la stessa come per le donne, a sentire Un eroe dei nostri tempi, di Lermontov, se non ricordo male.
Secondo Pečorin, il protagonista di Un eroe dei nostri tempi, di Lermontov, la relazione con le donne è paragonabile alla relazione coi boschi incantati che hanno i personaggi della Gerusalemme liberata del Tasso. Quelli che si spaventano per i trucchi degli incantesimi che incontrano all’inizio, scappano, e arrivederci; quelli che non si spaventano tirano dritto e arrivano in una radura centrale dove godono di gioie inenarrabili.
Ecco. Non so se mi ricordo bene.
Comunque, con la letteratura russa, più o meno, potrebbe anche succedere così. Cioè che se non ti spaventi, non scappi, arrivi al centro del bosco che c’è una radura che è un posto che si sta benissimo.
Cioè quei romanzi così grossi, con tutti quei personaggi che hanno almeno tre nomi e un cognome e un paio di soprannomi e dei gradi che li colloca in una gerarchia incomprensibile e che sono legati da intricatissimi vincoli di parentela, se fai come Bichsel, se porti pazienza, dopo alla fine ti danno delle soddisfazioni, e se sei proprio fortunato magari ti fanno anche male.
Allora, per venire alla sostanza, adesso facciamo questa piccola rassegna, a Torino, al circolo dei lettori di via Bogino, che per cinque martedì, cinque appassionati di letteratura, Ermanno Cavazzoni, Francesco Lagi con il suo Teatrodilina Paolo Nori (che sono io) con Carlo Boccadoro, Gian Piero Piretto e Emanuele Trevi, raccontano cinque grandi, inabbracciabili opere della letteratura russa dell’ottocento, secondo un calendario che copio qua sotto.

22 gennaio – Paolo Nori e Carlo Boccadoro al pianoforte – La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj
5 febbraio – Gian Piero Piretto – Le tre sorelle di Anton Cechov
12 febbraio – Ermanno Cavazzoni – Eugenio Oneghin di Aleksander Puskin
19 febbraio – Paolo Nori e Teatrodilina – Le anime morte di Nikolaj Gogol’
26 febbraio – Emanuele Trevi – Il Giocatore di Fedor Dostoevskij.

***

Ecco, adesso, se parlassimo di un argomento normale, di cinema, o di meccanica, o di elettronica, o di statistica, o di raccolta differenziata, o di agricoltura, o di calcio, o di pallacanestro, o di sport estremi, o di pattinaggio in linea, varrebbe la pena di parlare di ciascuno di questi appuntamenti uno per uno e di analizzarli eccetera eccetera solo che, parlando di inabbracciabili, cioè di autori dei quali è praticamente impossibile parlare anche solo di uno, come fai a parlare di tutti? Prendiamone per esempio due, che sono poi un po’ i primi due, cioè Puškin e Gogol’, e leggiamo cosa ne pensa un grande scrittore russo del secolo successivo, che si chiama Daniil Charms, e che, riferendosi a Puškin, a scritto:

È difficile parlare di Puškin a qualcuno che di lui non sa niente. Puškin è un grande poeta. Napoleone è meno grande, di Puškin. E Bismark, in confronto con Puškin, non vale niente. E Alessandro primo e secondo, e terzo, in confronto con Puškin sono delle vesciche. Tutti, in confronto con Puškin, sono delle vesciche, solo in confronto con Gogol’, lo stesso Puškin è una vescica.
E allora, anziché scriver di Puškin, è meglio se scrivo di Gogol’.
Anche se Gogol’ è tanto grande, che di lui non si può scrivere niente, pertanto scrivo di Puškin.
Ma dopo Gogol’, scrivere di Puškin vien quasi vergogna. E di Gogol’ scrivere non si può. Allora è meglio se non scrivo niente di nessuno.

E finisce così.
Ecco questo testo di Charms l’ho tradotto io ed è dentro un’antologia che si intitola Disastri, ne volevo mettere anche un altro tradotto da Rossana Giacquinta che è dentro un’antologia di che si intitola Casi ed è una specie di testo teatrale e fa così:

Gogol’ (cade in scena da dietro le quinte e se ne resta pacificamente sdraiato).
Puškin (entra, inciampa in Gogol’ e cade): Maledizione! Non sarà mica Gogol’!
Gogol’ (tirandosi su): Che schifo, non si può riposare un attimo! (Si allontana, inciampa in Puškin e cade). Non mi sarà mica capitato tra i piedi Puškin!
Puškin (tirandosi su): Non c’è un attimo di pace! (Si allontana, inciampa in Gogol’ e cade). Maledizione! Non sarà mica ancora Gogol’.
Gogol’ (tirandosi su): Ce n’è sempre una! (si allontana, inciampa su Puškin, e cade). Che schifo! Ancora Puškin!
Puškin (tirandosi su): Ma questo è teppismo! Vero e proprio teppismo! (si allontana, inciampa in Gogol’ e cade). Maledizione! Ancora Gogol’!
Gogol’ (tirandosi su): Ma questa è una presa in giro! (Si allontana, inciampa in Puškin e cade). Ancora Puškin!
Puškin (tirandosi su): Maledizione! É proprio una maledizione! (Si allontana, inciampa in Gogol’ e cade) Gogol’!
Gogol (tirandosi su): Che schifo! (Si allontana, inciampa in Puškin e cade). Puškin!
Puškin (tirandosi su): Maledizione! (Si allontana, inciampa in Gogol’ e cade al di là delle quinte) Gogol’!
Gogol (tirandosi su): Che schifo! (esce di scena).

Da dietro la scena si sente la voce di Gogol’: Puškin!

Ecco. Una ventina di anni fa, quando facevo l’università, a Parma, io mi ricordo parlavo con un mio amico a cui Puškin non piaceva e lui, per spiegare questo fatto, che Puškin non gli piaceva, citava questo micro testo teatrale desumendo da questo testo che anche a Charms, non piacesse Puškin (Charms aveva, all’università di Parma, vent’anni fa, un’autorevolezza indiscussa, ed era spesso oggetto delle nostre conversazioni, siccome un nostro compagno di corso lo chiamavamo Zanzara, o, più brevemente, Zanza, citavamo spessissimo il breve dialogo di Charms intitolato Petrov e Zanzarov che dice così:

Petrov e Zanzarov

Petrov: Oh, Zanzarov! Andiamo a caccia di zanzare.
Zanzarov: No, non sono ancora pronto per questo; andiamo piuttosto a caccia di gatti.)

ecco, dicevo, questo breve testo teatrale, quello di prima che Puškin e Gogol’ continuamente cadono l’uno sull’altro, secondo quel mio amico era segno del fatto che, a Charms, Puškin non piaceva e, io allora non lo sapevo, ma qualche anno dopo ho letto, nei diari di Charms, questa breve annotazione:

Se si escludono gli antichi, dei quali non posso giudicare, di veri geni se ne trovano solo cinque, e due sono russi. Ecco questi cinque geni-poeti: Dante, Shakespeare, Goethe, Puškin e Gogol’.

Allora, questo breve testo di Charms, ammesso che voglia dire qualcosa, non vuole dire che Puškin e Gogol’ non gli piacciono, vuol dire qualcos’altro che adesso, cosa voglia dire io non sono capace, di dirlo, e non so neanche se è possibile, mi viene in mente un professore al quale una studentessa una volta avdva chiesto cosa voleva dire Leopardi quando ha scritto «Sempre caro mi fu quest’ermo colle».
«Adesso ti spiego, – aveva detto il professore, – Leopardi voleva dire: Sempre caro mi fu quest’ermo colle».
«Sì, professore, ma cosa intendeva, dicendo: Sempre caro mi fu quest’ermo colle?».
«Ah, vuoi sapere cosa intendeva, dicendo così, adesso ti spiego, intendeva, dicendo così: Sempre caro mi fu quest’ermo colle».
Ecco, secondo me, anche Charms quando ha scritto la micro-pièce di Puškin che cade su Gogol’, dicendo quello che ha detto, intendeva esattamente quello che ha detto, e anche quel che non ha detto, che quel che non c’è, dentro un testo letterario, è altrettanto importante di quello che c’è, mi sembra, pertanto dire cosa intendeva Charms quando ha scritto quella cosa lì io non sono capace, e non credo neanche che sia possibile, posso dire però cosa è venuto in mente a me, quando ho letto quella cosa di Puskin che cade continuamente su Gogol’, mi son venuti in mente Tolstoj e Dostoevskij, che, parlando di letteratura russa, la domanda che forse mi hanno fatto più spesso è: «Ti piace più Tolstoj o Dostoevskij?».
Succede sempre così, se te dici a qualcuno che tu stai leggendo un romanzo di Tolstoj, quello ti guarda, si aggiusta gli occhiali, ammesso che abbia gli occhiali, e ti dice «Ma Dostoevskij, non ti piace?»; se gli dici che stai leggendo Dostoevskij, quello ti guarda, si aggiusta gli occhiali (ammesso che abbia gli occhiali) e ti dice «Ma Tolstoj, non ti piace?»; è così, non si sa cosa farci, quando vien fuori Dostoevskij, viene sempre fuori anche Tolstoj, come Stanlio e Ollio, o Gianni e Pinotto, o Ric e Gian, o il babbo e la mamma, sempre insieme, adesso, e allora, quando scriveva Charms, agli inizi del novecento, probabilmente la stessa cosa che oggi vale per Tosltoj e Dostoevskij allora valeva per Puškin e Gogol’, e il fatto che, oggi, Puskin e Gogol’ non siano Tolstoj e Dostoevskij, cioè non siano, in Italia, per lo meno, sulla bocca di tutti, che non siano considerati autori fondamentali e imprescindibili per capire la nostra contemporaneità o non so bene cosa, ecco, questo fatto qua, secondo me, potrebbe anche essere un bene, perché io, quando facevo l’università, una ventina d’anni fa, c’era pieno di gente che studiava con me che diceva che Benjamin era fondamentale per capire il nostro tempo, che senza di lui non si poteva far niente, e io, una reazione istintiva, ma così, senza pensarci, era stata di dire “Ah sì, è fondamentale? Allora io non lo leggo. Io faccio a meno di Benjamin, – avevo pensato, vediamo se non poi mi trovo male. Io la mia testa la dichiaro ufficialmente una testa debenjaminizzata, dopo vediamo, se sto meglio io o se state meglio voi che avete accesso a queste conoscenze fondamentali”. Ma mica solo con Benjamin, mi era successo così con un po’ di gente, quell’altro là che aveva inventato l’ermeneutica, quello che tutti dicevano che aveva scritto delle opere fondamentali nel campo dell’interpretazione che senza aver letto quelle non si era in grado di interpretare neanche la tazza del vater, come si chiama, Gadamer? Mai letto una riga di Gadamer neanche per sbaglio. Ma mica solo Gadamer, anche quell’altro, quel filosofo che tutti dicevano che era il filosofo fondamentale del novecento, quello tedesco, come si chiama, coso lì, Heidegger. Io Heidgger, non faccio per vantarmi, non so neanche i suoi libri come si intitolano.
Era proprio una cosa che vista da fuori mi rendo conto che potrebbe sembrare una reazione un po’ da ignorante, non discuto, e delle volte io questa mia intransigenza, questa mia ascesi, in un certo senso, l’ho anche pagata con dei sacrifici che Freud, io, a dire il vero, qualcosa avevo letto anche prima, Psicopatologia della vita quotidiana, e mi era piaciuto, mi era piaciuto tanto che mi ero iscritto a un corso di psicologia dove c’era il monografico su Freud solo che poi, la prima lezione, la professoressa, che mi piaceva anche abbastanza, aveva una gonna appena sopra al ginocchio, un po’ demodé, aveva detto che Freud era un genio e che le sue opere fondamentali avevano gettato una luce nel buio della mente umana e che senza di loro la comprensione del mondo sarebbe stata difettosa e incompleta che io quando ho sentito così mi ricordo ho pensato “Vacca miseria, non posso leggere neanche lui”.
Che, lo ripeto, visto da fuori potrebbe sembrare un atteggiamento da ignorante una specie di partito presto invece a pensarci bene secondo me una ragione ce l’ha.
Che io una volta un mio amico parlando di letteratura lui mi diceva che gli autori che piacevano a me erano tutti dei marginali, e io ho pensato “Per forza”.
Che gli autori che in un dato momento tutti dicono che sono fondamentali, gli autori che tu li trovi citati su tutti libri in tutti i giornali in tutte le conversazioni, gli autori alla moda, gli autori ai quali si abbeverano tutti, se così si può dire, in quel momento lì che sono alla moda che tutti ci si abbeverano, se uno ci va accanto li trova indeboliti, smunti, sbranati, fatti a pezzi, debilitati, ridotti in pillole e ammalati, anche, febbricitanti, anemici, respirano male, mangiano troppo, fan poco moto, c’è pieno di gente che li porta in giro, in palmo di mano, e allora poi loro diventano pigri, han poco fiato, fanno fatica a fare le scale, e parlano male, riescono a dire ormai solo quelle due o tre cose che ripetono così, a pappagallo, sembran dei deficienti ma magari non sono dei deficienti, magari è solo un momento difficile, bisogna avere pazienza, aspettare una ventina d’anni e poi andargli accanto e allora lì sì, che uno si rende conto di cosa hanno da dire, che ormai gli è passata la sbornia, gli son passati anche i postumi, sono lì sobri che ti dicon le cose direttamente senza in mezzo tanta ermeneutica e così adesso Puškin e a Gogol’ che all’epoca, per tutto l’ottocento, son stati i padri della letteratura russa moderna, come si sa Dostoevskij diceva «Noi veniamo tutti dal Capotto di Gogol’», e Turgenev ha scritto: «Non bisogna dimenticare che, da solo, Puškin ha dovuto fare due lavori che, in altri paesi, sono stati fatti a distanza di interi secoli, e anche di più, vale a dire: organizzare una lingua, e creare una letteratura», e a me sembra di capire benissimo questa cosa che ha scritto Turgenev, perché il russo letterario dell’ottocento è, mi viene da dire, un’invenzione di Puškin, e questo va bene, siamo di fronte a due inabbracciabiabili d’accordo, ma non è che adesso parlan tutti di Puškin e di Gogol’, no, non sono d’attualità, che è un fatto, per me, che li fa diventare più interessanti, perché le cose che dicono, tra l’altro, le dicono con una lingua che arriva tutta, direttamente, comprensibile a tutti, contemporanea, viva, come si può intuire da una frase che mi fa piacere ripetere per la terza volta, in questo articolo, una frase né di Puškin né di Gogol’ ma di un loro discepolo, se così si può dire, Lev Nikolaevič Tolsoj che ha scritto, nel 1884, quando aveva 56 anni: «Se c’è qualcuno che dirige le cose della vita, vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata».

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E poi, volevo dire ancora due cose, la prima, che molte delle cose che ho scritto in questo articolo sono cose che ho preso da altri articoli, alcuni dei quali magari pubblicati anche sul Foglio in questi ultimi mesi, e allora volevo rispondere a una possibile obiezione anche sensata che sarebbe, più o meno «Ma non ti sembra di esagerare, a scrivere sempre le stesse cose?».
Ecco, a un’obiezione del genere, la mia riposta sarebbe «No, non mi sembra di esagerare», e il motivo per cui non mi sembra di esagerare è l’effetto Kulešov, che è un regista sovietico che in un libro del 1941, Fondamenti della regia cinematografica, parla di un esperimento che ha fatto filmando quattro sequenze: qualche secondo del primo piano di un attore, che si chiamava Mozžuchin, che guardava il paesaggio; qualche secondo di una zuppa fumante; qualche secondo di un bambino steso, come se fosse morto, dentro una bara; qualche secondo di una ragazza stesa su un divano.
Poi Kulešov, il regista, aveva montato le sequenze in questi tre modi: zuppa fumante – primo piano dell’attore; bambino nella bara – primo piano dell’attore; ragazza sul divano – primo piano dell’attore.
La faccia dell’attore Mozžuchin, nel primo montaggio sembrava una faccia affamata, nel secondo una faccia disperata, nel terzo una faccia innamorata, ma la faccia era sempre quella, e l’esperimento di Kulešov dimostra, ammesso che sia possibile dimostrare qualcosa, che il significato che si attribuisce a una cosa cambia a seconda delle cose che la circondano, e questo è il motivo per cui mi permetto di ripetere delle cose che se non ci fosse l’effetto Kulešov verrebbe anche a me da chiedermi: «Ma non ti sembra di esagerare, a scrivere sempre le stesse cose?».
E l’ultima cosa, per finire questo lungo articolo dove, come ogni tanto mi succede, non ho detto praticamente niente, volevo finire con una frase di uno dei protagonisti della rassegna di cui, nel niente che non ho detto di nessuno, ho detto ancora meno, vale a dire Anton Čechov, che è un autore che io, lo confesso, conosco pochissimo, e del quale però vorrei citare per lo meno una frase, e la frase la prendo dal suo libro che conosco meglio, che è un libro che si intitola I quaderni del dottor Čechov, ed è una raccolta delle frasi che Čechov si segnava sui suoi quaderni per scriverle poi dentro i racconti, e quando poi le scriveva nei racconti le cancellava dal quaderno, e quello che resta sono in un certo senso i suoi scarti, e ci son delle frasi che secondo me vanno bene, per finire un articolo come questo, per esempio questa, che è la frase numero 7 di pagina 23 (la traduzione è di Pietro Zveteremich): «gli piaceva che la sua fidanzata fosse religiosa, che avesse certe sue idee e convinzioni. Ma, quando essa divenne sua moglie, questa autonomia di pensiero cominciò a dargli fastidio».

FINE

[uscito ieri sul foglio]