Il romanzo dell’autore

domenica 5 Giugno 2016

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In un libro memorabile del 1978, Mi ricordo, di Georges Perec, c’è scritto: «Mi ricordo la fatica per capire cosa volesse dire l’espressione “senza soluzione di continuità”». E in un libro memorabile del 1975, Factotum, di Charles Bukowski, c’è scritto: «Trovai lavoro in un magazzino di pezzi di ricambio per auto dietro Flower Street. Il direttore era un uomo alto e brutto senza culo. Tutte le volte che scopava la moglie me lo raccontava la mattina dopo. “Ieri sera ho scopato mia moglie. Prima l’ordine dei William Brothers”. “Non abbiamo più flange K-3”. “Ségnalo”. Lo segnai sulla distinta e sulla fattura. “Ieri sera ho scopato mia moglie”» (la traduzione è di Marisa Caramella). Questi due libri mi son venuti in mente intanto che leggevo Works, di Vitaliano Trevisan, un «romanzo autobiografico» (così in quarta di copertina) da poco uscito per Einaudi stile libero. Il libro di Bukowski mi è venuto in mente perché Chinaski, il protagonista di Factotum, come il protagonista del libro di Trevisan racconta una serie di lavori strampalati che gli capita di fare prima di trovare il modo di guadagnare scrivendo. Le differenze tra i due libri, però, sono evidenti, prima tra tutte il fatto che Factotum, nell’edizione che ho io, SUGARCo 1981, è 166 pagine, mentre Works di pagine ne ha 651, ma questa può essere una differenza quantitativa, superficiale; una differenza più sostanziale è forse nel fatto che il protagonista di Bukowski si chiama Chinaski, mentre il protagonista di Trevisan è lui stesso, Trevisan, che però quando parla di sé non dice quasi mai «io», dice «l’autore». «Al tavolo, oltre all’autore, ovvero chi scrive, la regista e la coproduttrice; il di lei giovane figlio, /…/ il di lui giovane figlio», si legge a pagina 9. Un po’ più avanti, a pagina 452, quando parla del fratello di sua moglie, Trevisan (o, meglio, l’autore) scrive che suo cognato diceva spesso «Noi imprenditori. Un giovane imprenditore come me, anche questo gli avevo sentito dire più di una volta, e sempre mi veniva da ridere, a sentirlo usare quella parola in riferimento a se stesso». Ecco, a me, devo dire, è venuto da pensare che è stranissimo, che Trevisan non abbia riso almeno un po’, all’idea di aver scritto un romanzo (autobiografico) di 651 pagine il cui protagonista, quando si riferisce a se stesso, scrive «l’autore», e lo scrive con la distanza che inevitabilmente si crea quando si ha a che fare con un «autore», distanza che dà alla lingua di Trevisan un registro stranissimo, quasi burocratico, tanto che una delle sue espressioni preferite è «Senza soluzione di continuità», che è un’espressione che io, prima di questo Works, non ricordo di aver trovato in nessun romanzo italiano, e che mi sembra più adatta a una prosa giornalistica o a una radiocronaca che a un romanzo autobiografico.

E stranissime sono certe parti, di questo romanzo, per esempio quella in cui Trevisan parla di quando l’autore (cioè lui) lavorava come geometra (a pagina 355): «Trattasi dunque di affrontare il problema nel suo complesso, studiare il territorio, e porre in atto una strategia di risanamento e consolidamento ricorrendo agli allora più moderni metodi di ecoingegneria, così come spiegati e illustrati nell’apposito manuale che il geometra comunale Y mi consegna». Perché queste cose sono entrate nel romanzo? mi sono chiesto. Forse perché sono parte della vita di un importante esponente della letteratura italiana contemporanea, l’autore, che, mi è sembrato, è il primo a essere consapevole di avere a che fare con un importante esponente della letteratura italiana contemporanea, e a pagina 626, quando è arrivato a raccontare il momento in cui «l’autore» è «uno scrittore misconosciuto, che per mantenersi fa il portiere notturno» in un albergo, trova che valga la pena di riportare «Una piccola nota che trascrivo da un taccuino dell’epoca: “Agosto ’01 – Tutti che mi parlano della letterarietà del lavoro in hotel. Andassero a farselo mettere nel culo”». Che è una nota che io quando l’ho letta ho pensato che, se non fosse appartenuta a un «autore», forse non valeva la pena di metterla dentro un romanzo, per quanto autobiografico, così come mi sono chiesto se valeva la pena di sostenere, dentro un romanzo, che «a volte, nell’adolescenza, c’è più saggezza di quanto comunemente si pensi», o di chiedersi «è possibile non amare più, quando si è amato davvero?», o di sostenere che mantenere l’indipendenza, la libertà e l’onestà è «pressoché impossibile, se si scrive per un giornale». Chissà.

[Uscito ieri su Libero]