Il dolce far niente, i trafori e le start up

mercoledì 2 Maggio 2018

[Copio qua sotto il discorso sul lavoro che ho fatto ieri a Parma (è un po’ lungo)]

Buongiorno, io mi chiamo Paolo Nori, scrivo dei libri, e cinque anni fa, nel 2013, tra marzo e aprile, è stato il picco della mia popolarità, popolarità che non dipendeva da una cosa che avevo scritto, ma dal fatto che avevo picchiato la testa ero finito in ospedale e era girata la voce che ero morto: avevo fatto una cosa come si deve, morire, ed ero giustamente diventato molto popolare, nei limiti delle mie possibilità, e una delle conseguenze di questa popolarità era stato il fatto che mi avevano invitato a Roma, il primo maggio, al concerto dei sindacati, a fare un breve discorso sul lavoro che io gli avevo detto che io però, per un tratto del mio carattere che potremmo definire bastiancontrarite, avrei preferito fare l’elogio del riposo, il primo maggio, e difatti l’avevo poi fatto.
E avevo parlato di una cosa che adesso ne parliamo ma intanto volevo dire che sono molto contento di essere a Parma, che io, sono nato a Parma, e ho abitato per trent’anni a Parma, adesso è un po’ che non ci abito più, ma uno di Parma, anche se non abita a Parma, resta sempre di Parma, anca s’le n’strajé, che io, a s’era strajé anche quando abitavo a Parma, me lo diceva sempre mia nonna, t’si pran strajé, che strajé, lo dico per i non alloglotti, vuol dire, letteralmente, sparpagliato, ma vale anche per disordinato, che è quello che intendeva mia nonna e per In esilio, che è quello che sono a Bologna, praticamente.

Che io, mi rendo conto che è una cosa che può sembrare ridicola, ma io, a Bologna, a novanta chilometri da Parma, sono diciotto anni che mi sento in esilio, che è un esilio, come tutti gli esili, probabilmente, prevalentemente linguistico, cioè ci sono delle parole, delle espressioni, non so, salviettone, che qui a Parma lo sapete tutti cosa vuol dire, e per i non alloglotti dico che vuol dire salvietta grande, asciugamano grande, telo mare, ecco io finché ho abitato a Parma ero convinto che salviettone fosse una parola che in Italia la capivan dovunque, quando mi son trasferito a Bologna che ho capito che a Bologna salviettone era una parola che non lo capiva nessuno, cos’era, e ci son rimasto malissimo.
Qualche anno fa, quando in un liceo bolognese mi han presentato come uno scrittore bolognese io ho ringraziato ma io, ho detto, mi dispiaceva, ero di Parma, cioè non mi dispiaceva, ero di Parma senza dispiacermi, e essere uno di Parma a Bologna, per me, avevo detto, era come essere il protagonista di quella canzone di Sting, An englishman in New York, mi era scappato di dire.
E l’esilio linguistico è un esilio linguistico che vale anche al contrario: quando uno va dal bottegaio, a Bologna, e gli chiede, per dire, due etti di prosciutto di Parma, il bottegaio, dopo che ti ha tagliato i due etti di prosciutto di Parma, ti chiede «Altro?», e tu, se non vuoi altro, devi rispondergli «Altro», e se invece gli rispondi «Nient’altro», il bottegaio capisce che te non sei di Bologna, sei di Parma ma non solo di Parma, c’era un ragazzo toscano che mi ha raccontato che per Natale doveva tornare in Toscana e era andato a comparare una punta di parmigiano e il formaggiaio gliel’aveva data e poi gli aveva chiesto «Altro?», e gliel’aveva chiesto con un tono così categorico, come se non dubitasse affatto che quel ragazzo toscano avrebbe voluto qualcos’altro, e quel ragazzo di Livorno, che non voleva nient’altro, aveva detto «Sì, me ne dia un’altra», e aveva preso un’altra punta di parmigiano della quale non aveva nessun bisogno.
Ecco io, dopo, poco tempo fa, tipo quattro mesi fa, mi è successo che sono andato dal bottegaio, ho preso due etti di prosciutto di Parma e il bottegaio mi ha chiesto «Altro?», e io, me lo ricordo perfettamente, gli ho risposto «Altro», e dentro di me, stupefatto, mi sono detto «Ecco, dopo diciotto anni ti sei ambientato», ma nonostante la mia naturalizzazione, se così si può dire, io il salviettone continuerò a chiamarlo per sempre salviettone e, dopo comincio a parlar di lavoro, finisco solo questa parentesi, un po’ di tempo fa mi ha telefonato un mio conoscente che non sentivo da degli anni mi ha detto che a Roma aveva incontrato una scrittrice che gli aveva detto che non si spiegava come mai io non scrivessi in italiano.
Che era una cosa che io, quando me l’aveva detta, io avevo reagito un po’ da ignorante come reagisco quando reagisco da ignorante, mi succede, ogni tanto, di reagir da ignorante, e quando reagisco da ignorante a me vien da dir delle cose che poi, quando l’ignoranza mi passa, io non so se sono d’accordo con le cose che dico, per esempio a quel mio conoscente avevo detto «Dille che ci scriva lei, in italiano», che era come darle ragione che io non scrivevo in italiano invece io secondo me scrivevo, in italiano, solo che era un italiano particolare che io c’eran delle parole, come felicità, o il verbo amare, o maltempo, o benessere, o contattare, o approcciare, o assolutamente, io non le usavo mai, quando scrivevo, e mi era venuto da chiedermi come mai, non le usavo, e mi era venuto da rispondermi che dipendeva dal fatto che eran parole che, in dialetto parmigiano, non esistevano, che i parmigiani, la felicità, non sapevan neanche cos’era, non sapevano neanche dove stava di casa, in parmigiano non c’era, un parola, per dire felicità, non si diceva, in parmigiano, sono stato felice, si diceva «A ston stè ben», son stato bene, così come non si diceva, in dialetto parmigiano, Ti amo, si diceva «At voj ben», ti voglio bene, e non si diceva, in parmigiano, Ti contatto, si diceva «At serchi», ti cerco, e io, a pensarci, la mia lingua, il pozzo delle mie emozioni, io l’avevo scavato a Parma, e quando dovevo lavorare con loro, con le mie emozioni, dovevo usare le parole che avevo sepolto a Parma, dovevo tornare a Parma e buttare giù il secchio in quel pozzo lì che avevo scavato a Parma non potevo fare altrimenti e anche per quello io son sempre così contento, quando torno a Parma, e allora grazie che mi avete invitato, e adesso il lavoro.
Allora, il lavoro: non so se vi ricordate, ma qualche anno fa, sette o otto anni fa, forse, per radio c’era una pubblicità che c’era una signora che diceva Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà.
E c’era questo Ahmed che diceva Mi sun chi per Laura.
No, diceva la signora, non per Laura, per laurà.
E Ahmed diceva Per laurà.
Bravo Ahmed, diceva la signora, vedi che è facile?
E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi era venuto in mente che nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che avevo trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva In italiano nel testo, era: il dolce far niente.
Allora, non so come dire, avevo l’impressione che a noi, i casi erano due, o ci prendevano per degli altri, oppure ci stavano cambiando proprio i connotati.
Sempre in quel periodo lì, sette o otto anni fa, nella biblioteca sala borsa di Bologna, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti.
Non lavorate mai, c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia.
E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero:
E chi ci ha mai pensato.
Ecco io, quelle cose lì, il dolce far niente, e quella scritta nel bagno della sala borsa, devo dire, le capisco, mi sembrano interessanti, queste sacche di resistenza al lavoro, che poi uno dice il lavoro il lavoro, dipende come, si lavora.
Non so, prendiamo Parma, per esempio, che io, adesso io non abito a Parma da un po’ di tempo, come vi ho detto, dal 99, e c’ero tornato per un anno tra il 2006 e il 2007, quando c’era la campagna elettorale, quella dove era stato eletto Vignali, che quando avevano chiesto al futuro sindaco Vignali qual era il progetto che maggiormente avrebbe impegnato la sua amministrazione se fosse stato eletto, Vignali aveva risposto: La metropolitana.
A me era successo poi, più di una volta, di raccontare, in giro per l’Italia, che a Parma, una città pianeggiante di 163.000 abitanti, allora, volevano fare la metropolitana, e tutte le volte che l’ho raccontato la gente rideva.
A Parma, invece, facevan sul serio.
L’ex sindaco di Parma, Ubaldi, nel corso dell’ultima campagna elettorale, aveva interrotto, durante un dibattito, un signore che diceva che la metropolitana, se la avessero fatta davvero, poi la città per dieci anni sarebbe piena di cantieri, di polvere, Ma che polvere? l’ha interrotto Ubaldi, il sindaco di Parma.
Come che polvere?, ha detto quel signore, Devon fare un buco, per forza fan della polvere.
Ma noo, ha detto l’ex sindaco di Parma, è un buco sottoterra, non si fa polvere.
Allora io mi ero chiesto se esiston dei buchi sopra la terra.
Mi eran venuti in mente i trafori, forse intendeva quelli, l’ex sindaco di Parma, però, a parte che fare dei trafori a Parma è difficile, non ci sono montagne, ma a parte quello, non è che i trafori si possa dire che sono sopra la terra, perché quella che c’è sopra i trafori è sempre della terra, o della roccia, allora non lo so, cosa intendeva, l’ex sindaco di Parma.
Allora, adesso, la metropolitana, lì, non l’han fatta, che da un certo punto di vista è un peccato, che era un lavoro, da un altro punto di vista, però, io credo che sia stato meglio, perché non era un lavoro tanto per la quale, che esser qui per laurà, va bene, ma che sian dei lavori sensati, che è una cosa che, mi rendo conto, ai nostri tempi, è un po’ difficile.
Anche se forse sono io, che non son tanto pratico, del mondo moderno.
Una volta ero su un treno, su uno di quei treni regionali che a me piacciono più dei treni Eurostar, degli Intercity, dei Freccia Rossa e dei Freccia Argento, non so come mai, mi fanno venire in mente delle espressioni come appena appena, o quasi quasi, o così così, o meno meno (come sei meno meno), che sono espressioni che rimandano a un mondo che non ce la fa quasi più che mi piace moltissimo, una condizione del genere, un’altra volta mi era venuto da pensare che io ormai era una vita, che ero sul punto di rassegnarmi, e forse era per quello, che mi trovavo così bene su quei treni, perché sembravan dei treni che non ce la facevan quasi più, che erano sul punto di rassegnarsi e una volta, tornavo da Cesena, ero stato alla facoltà di architettura a ragionare di case emiliane, esistono le case emiliane?, e quelle romagnole?, c’è un’architettura emiliana?, e un’architettura romagnola?, ero stato due ore nella facoltà di architettura a farmi delle domande del genere e quando ero montato sul treno avevo guardato la posta elettronica, sul mio telefono, avevo visto che avevo ricevuto una mail dal negozio elettronico della Feltrinelli avevo pensato che io non le volevo ricevere, delle mail dal negozio elettronico della Feltrinelli, e avevo cercato in fondo alla mail il modo di cancellarmi, avevo trovato una scritta che diceva: se non vuole ricevere più questa newsletter clicchi qui, e ci avevo cliccato e mi era comparsa una scritta che diceva: «La tua richiesta di disiscrizione è stata registrata correttamente; da questo momento non riceverai più la nostra newsletter. Nel caso in cui dovessi ricevere ancora mail, è perché sono state pianificate prima della ricezione della tua richiesta di disiscrizione».
Che a me era sembrato un messaggio stranissimo per due motivi: per via del fatto che mi dicevano che non avrei ricevuto più le loro mail e che forse ne avrei ricevute ancora, e per via del fatto che in questo messaggio si usava per due volte una parola che non avevo mai visto e che non conoscevo: disiscrizione.
Che io, se fosse stato qualcun altro a scrivermi, avrei pensato a un errore, ma siccome la mail veniva dalla Feltrinelli, che era una delle più importati case editrici italiane, avevo pensato che non erano loro che avevan sbagliato, ero io, che ero rimasto indietro.
La lingua, del resto, lo sappiamo, è fatta così, va verso la semplificazione, uno si iscrive e si disiscrive: iscrizione – disiscrizione.
Perché usare cancellazione, che è brutto?
Disiscrizione è molto più facile e intuitivo, e il meccanismo si può applicare anche ad altri processi, uno per esempio nasce e poi disnasce.
Pensate a un dialogo del tipo «Come stai?», «Male», «Come mai?», «È disnato mio cugino».
Uno viene promosso, o dispromosso, a me alle superiori mi han dispromosso due volte, sempre in quarta superiore.
Uno al mattino si veste, alla sera si disveste: «Vieni a letto!», «Aspetta che mi disvesto», avevo pensato una volta sul treno a disandare a Cesena che ci ero andato a parlar di architettura e stavo disandando a Bologna dove sarei dovuto poi andare in biblioteca a disprendere in prestito un libro, poi a fare la spesa, poi a casa a dispranzare, poi alla sera avrei fatto lezione alla scuola elementare di scrittura emiliana (una discuola di scrittura) e poi, finalmente, verso mezzanotte, avrei potuto dissvegliarmi, che mi ero disaddormentato alle sei mattino, quel giorno lì, una bella disriposata.
Cioè io, anche nel campo del lavoro, ci son delle parole, che adesso vanno di moda, che io, proprio, non so cosa voglion dire, come Implementare, io quando sento dire Implementare, io mi sembra di non avere implementato niente in vita mia, e ormai, ho 54 anni, ma cosa vuol dire, implementare? Ma anche, non so, start up, no? Che lo sentiamo dire ormai da degli anni, ma cos’è, una start up?
Io, abito a Casalecchio di Reno, quartiere Croce, e l’edifico che c’è dopo casa mia è una clinica, che si chiama Villa Chiara, e di fronte alla clinica c’è un ospizio, che si chiama Villa Serena, e forse per quello, qualche mese fa, sotto casa mia hanno aperto un’agenzia di pompe funebri, e io, mi ricordo, quando hanno aperto volevo entrare e chiedergli Scusate, ma voi siete una start up?, avevano appena aperto, potevano.
Che a me, devo dire, apro un’ultima piccola parentesi poi ricomincio a parlare di lavoro, a me, abitare in posti così, un po’ laterali, sfortunati, devo dire che mi piace, quando ho cominciato a scrivere, nel 1996, 22 anni fa a Parma, io mi sono accorto, perché l’ho scritto, che abitato al numero 3 di via Caduti di Montelungo, tra largo Dispersi dell’Egeo, viale Dispersi e Morti in Russia, via Martiri di Cefalonia e via Anna Frank e ho pensato che era il posto ideale, per cominciare a scrivere, chiusa la parentesi.
Allora, il lavoro.
Io stamattina, quando mi son svegliato, alle sette e mezza, ho sentito un rumore, che mi sembrava di conoscerlo, mi sono affacciato alla finestra e ho visto un camion della spazzatura, con uno spazzino che lo caricava, e dopo, dall’altra parte della Porrettana, io abito a Casalecchio di Reno, su via Porrettana, c’era un autobus, che andava, e allora ho pensato che oggi, primo maggio, festa del lavoro, c’è della gente che lavora, io faccio questi pensieri che non son dei pensieri molto sofisticati, mi ero anche appena svegliato, bisogna, dire, ma delle volte li faccio anche da sveglio, son dei pensieri così, da poco, oggi primo maggio c’è della gente che lavora che, tra l’altro, subito dopo m’è venuto un altro pensiero simile che oggi, primo maggio, dovevo lavorare anch’io, che dovevo finire di scrivere questo piccolo discorso che si avvia ormai alla fine che voi siete qui per sentire dell’altra roba e non è giusto che io approfitti di questo microfono che mi avete dato per delle mezz’ore, no no, ho quasi finito, aggiungo soltanto altre due o tre cose la prima è che quello spazzino, quell’autista dell’autobus di stamattina, per il fatto che stamattina era il primo maggio, il loro lavoro prendeva un significato che a me sembrava più forte, c’era come un aura, intorno a quell’autobus e intorno a quel camion della spazzatura, e, forse, dopo, c’era anche intorno al mio computer, ma forse no, che io faccio un lavoro un po’ così che si fa anche fatica a chiamarlo lavoro e forse è proprio per quello che a me piace tanto.
Che quando lavoravo facendo dei lavori veri, quando per esempio facevo l’apprendista salumaio, nei prosciuttifici di San Vitale Baganza, tre mesi d’estate, che avevo sedici anni, o quando per esempio facevo il facchino per il colle all’Althea di via Budellungo a Parma, che avevo trent’anni, e è stato il primo lavoro che ho fatto dopo la tesi, io mi ricordo che anche lì c’eran delle cose che mi piacevano, per esempio quando finivo di lavorare io ero così contento che mi sarei strappato i capelli, dal tanto che ero contento, se si capisce.
Poi, la seconda cosa, volevo die che un po’ di anni fa sono andato a presentare un romanzo che era un romanzo sui giochi elettronici, il protagonista era uno che non riusciva a smettere di giocare ai giochi elettronici, e io, mi ricordo, avevo pensato che i primi giochi elettronici, in Italia, quelli da bar, erano arrivati negli anni ottanta, quando io avevo 18-20 anni, e a me era venuto da dire che per me e per quelli come me che erano nati nel 1963, il mondo era forse un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti.
È una cosa che ho poi scritto anche dentro un romanzo, e poi l’ho riscritta anche dentro un altro romanzo, e dev’essere una cosa che mi sembra che sia interessante perché tutte le volte che ho l’occasione di dirla la dico, e così anche oggi.
E praticamente consiste nel fatto che quelli che son nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati.
Quelli che son nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire.
Quelli che son nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro.
Quelli che son nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa, poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test.
E allora aveva anche senso, che proprio in quel periodo lì, negli anni ottanta, fossero comparsi in Italia i giochi elettronici, perché uno di vent’anni che passava sei o otto ore al giorno a giocare ai giochi elettronici, che negli anni cinquanta sarebbe stato un disadattato (Sei un delinquente, gli avrebbero detto i suoi genitori), a partire dagli anni ottanta andava benissimo, perché rispondeva al compito precipuo della sua generazione, di stare tranquillo e non rompere troppo i maroni.
Noi, quelli che avevano la nostra età, la mia età, il nostro strumento, la nostra leva per farci spazio, nel mondo, per noi non era più, com’era stato per le generazioni precedenti l’entusiasmo, o il dovere, o il senso di sacrificio, o la speranza di un mondo migliore o non so cosa. No. Noi, la nostra leva, quello che ci costringeva a entrare nel mondo, per noi, era la disperazione, mi sembrava.
Ecco, quando poi è uscito, quel libro, qualcuno mi ha chiesto cosa penso di quelli che son nati negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta, e quello che penso, io ne so poco, ma mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, forse ce ne sono di più, io ne vedo una, che almeno noi quando lavoravamo ci pagavano, loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano, e questa, secondo me, è una cosa che io non la capisco.
Quindi il mio elogio del riposo, mi vien da pensare, forse non è una cosa tanto sovversiva, tanto bastiancontraria, come mi piacerebbe, corrisponde, in sostanza, al compito precipuo della mia generazione, e forse, adesso io di preciso non lo so, io di preciso non so niente, o pochissimo, ma forse è per quello che ho scelto un mestiere, di scrivere dei libri, che è un mestiere che i momenti più belli della mia giornata sono quando lavoro, sono quando metto le mani sulla tastiera di un computer e le faccio andare, sono quando ho un romanzo che mi cambia sotto gli occhi e che diventa una cosa inaudita, e, alla fine, nonostante tutta la mia bastiancontrite, la mia giornata, tutte le mie giornate mi dicono che è una cosa evidente, che il lavoro è l’unica salvezza, che l’unica salute è diventare matti.
E potrei finire anche così, invece voglio finire con due poesie di un poeta che mi piace molto, che si chiama Nino Pedretti e che scrive delle poesie che io trovo memorabili, la prima non ha a che fare con il primo maggio ma con il 25 aprile, son passati 5 giorni, vale ancora, mi vien da dire, poi è breve, si intitola I partigiani e fa così:

I partigiani

Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.

Son nel dialetto di Santarcangelo di Romangna, gli originali di Pedretti, le ho tradotte un po’ io, in italiano, la seconda ha a che fare con il primo maggio e si chiama I nomi delle strade e parla del lavoro nel senso del dolce far niente, che a me, nonostante, tutto, mi piace così tanto, e si chiama I nomi delle strade e fa così:

I nomi delle strade

Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi, son dei papi,
di quelli che scrivono, che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso sopra una cavalla.
E pensare che il mondo è fatto di gente come me
che mangia il radicchio alla finestra
contenta di stare, d’estate, a piedi nudi.

Grazie, buongiorno.