I bicchieri infrangibili

sabato 23 Gennaio 2010

breve-storia

I bicchieri infrangibili
discorso sulla DDR
pronunciato a Trento
il 25 ottobre 2009
in occasione della presentazione dei volumi
Breve storia della letteratura della DDR
e La DDR. Una storia breve
nell’ambito di una rassegna intitolata Germania Est
tracce della DDR nella Germania occidentale

Buongiorno, grazie dell’invito, sono contento di essere qui e di avere l’occasione di conoscere delle persone che si occupano di DDR perché, anche se io non me ne sono mai occupato nella mia vita, come dirò, credo che ci siano dei punti in comune con quello che ho fatto io, che dopo essermi diplomato in ragioneria e avere lavorato per tre anni circa in paesi arabi, Algeria e Iraq, per la precisione, mi sono iscritto all’università e alla fine mi sono laureato in russo e, mentre non mi è mai successo che quando dicevo che avevo studiato ragioneria qualcuno mi chiedesse come mai avevo studiato ragioneria, che sarebbe stata una domanda anche sensata, mi hanno chiesto molte volte come mai avevo studiato russo. Per via, credo, che visto da fuori, uno che studia russo, è una persona un po’ strana, mentre per me, che mi vedo da dentro, mi sembra di essere normalissimo, e allora oggi sono contento anche per quello, perché, a dire il vero, se a mi sembra normalissimo studiare russo, per via forse che l’ho studiato io, mi sembra piuttosto strano studiare la letteratura della DDR, e quindi io in un certo senso oggi son dentro però sono anche fuori.

Anche se io, in questo momento, e per questa occasione, sono reduce da una specie di full immersion nella DDR, nel senso che gli ultimi quattro giorni della mia vita io li ho passati, ogni momento libero, a leggere due dei libri che presentiamo oggi, una storia della DDR, e un manuale di letteratura della DDR, e a scrivere di conseguenza questo discorso.

La cosa, per me, è tanto più sorprendente se si considera che il resto della mia vita, i rimanenti 46 anni e 184 giorni, se ho fatto bene i conti, io della storia e della letteratura della DDR non mi sono mai occupato. Non so, del resto, neanche il tedesco. Scusate. Apro una parentesi.

Intanto che sto scrivendo questo discorso, di fianco a me, sono le otto del mattino, hanno cominciato a tagliare degli alberi, con quelle seghe a motore che fan questi rumori simpaticissimi che aiutano la concentrazione che se uno avesse in casa un fucile con un mirino gli verrebbe l’istinto di andarlo a prendere, ogni volta che sente quel rumore lì simpaticissimo che fan quelle seghe a motore, chiusa la parentesi.

Tornando per un attimo al fatto che ho studiato ragioneria, apro un’altra parentesi, delle volte mi vien da pensare, quei pensieri che ti vengono così all’improvviso, che non sapresti neanche dire se li condividi oppure no, che il fatto che mi son laureato in letteratura russa, era per cancellare il fatto che mi ero diplomato in ragioneria. E che il fatto che mi son messo a scrivere i libri, era per cancellare il fatto che mi ero laureato in letteratura russa. Chiusa la parentesi.

Qualcuno dei presenti, a sentire queste parentesi, potrebbe pensare Cosa c’entra questa roba con la storia della DDR? e avrebbe ragione, non c’entra mica niente, solo che a me hanno chiesto, Michele Sisto, che è il curatore di uno dei due libri che si presentano oggi, Invenzione del futuro, Breve storia della letteratura della DDR, ed. Scheiwiller, Michele Sisto mi ha chiesto di scrivere un discorso sulla DDR che duri mezzora, e, è vero che io son quattro giorni che non faccio che leggere cose della DDR e pensare alla DDR, però è anche vero che io i rimanenti 46 anni e 184 giorni della mia vita, se ho fatto bene i conti, della storia della DDR non mi ero mai occupato, non so neanche il tedesco, e anche i presenti riconosceranno che mezz’ora è lunga, e parlare per mezz’ora di una cosa che per 46 anni e 184 giorni della tua vita non te ne sei mai occupato è una cosa che ci vuole della concentrazione, e invece qua intorno continuano a segare degli alberi come se nelle circostanze non ci fosse nessuno che deve scrivere un discorso sulla DDR, che tra l’altro, io, non so, devo aver sbagliato qualcosa fin dall’inizio perché, io avendo da leggere una Storia breve della DDR e una Breve storia della letteratura della DDR, io subito avevo cominciato a leggere la Breve storia della letteratura della DDR, che poi breve, son 400 e passa pagine, e mi ero accorto che io, degli autori che c’erano dentro quella Breve storia della letteratura, non ne avevo letto praticamente neanche uno, e, non so se avete mai provato a leggere un manuale di letteratura di una letteratura che non conoscete, fa un effetto stranissimo, come camminar sulla luna, mi è venuto in mente, poi mi è venuto in mente che io sulla luna non ci ho mai camminato e che dopo tutto io non lo so, com’è camminar sulla luna, allora ho pensato che è come perdersi in una città dove non si è mai stati, e straniera, che vedi i viali, le case, le piazze, i nomi delle vie ma non riconosci niente, per forza, non ci sei mai stato, non hai nessun elemento per orientarti.

Tra l’altro, con le storie della letteratura, che sono utilissime, eh, io mi sono laureato nel 1994 il Lo Gatto lo uso ancora adesso, però mi vien da pensare che se io fossi, rispetto alla letteratura russa, nelle condizioni in cui sono rispetto alla lettura della DDR, e leggessi La storia della letteratura russa del Lo Gatto senza aver mai letto un romanzo russo, io, per esempio, di Gogol’, che il Lo Gatto, come molti dei suoi predecessori che hanno esteso, se si dice così, si dice estensore, si dirà hanno esteso, come molti dei suoi predecessori che hanno esteso delle storie della letteratura russa anche il Lo Gatto mette Gogol’ come l’iniziatore, il capostipite del realismo russo, e il romanzo che ha questa funzione di pietra angolare secondo il Lo Gatto sono Le anime morte, ecco io, secondo me di Gogol’, se avessi letto il Lo Gatto prima di leggere Gogol’, avrei un’idea tutta diversa da quella che mi son fatto leggendo Le anime morte, che l’ultima volta che l’ho riletto ho pensato che era proprio stranissimo, che un libro così, un libro dove dei contadini diventano dei samovar, e dei ballerini delle mosche, e dei possidenti degli orsi, e delle possidenti delle scatolette, un libro dove le signore si dividono in signore semplicemente piacevoli e signore piacevoli da ogni punto di vista, dove le carrozze diventano dei cocomeri e gli ufficiali arrivati da Rjazan’ stanno svegli tutta la notte a decidere se comprare o non comprare un quinto paio di stivali, è proprio stranissimo che un libro così sia stato considerato il capostipite del realismo russo, era solo un esempio.

Allora all’inizio, in questa full immersion nella DDR, ero proprio spaesato, ho pensato che cominciare a scrivere subito non valeva la pena, che scrivevo poi tutto il discorso l’ultimo giorno, quando avevo poi letto tutto, cioè oggi, e stamattina, questi qua, han scelto proprio stamattina per venire a tagliare gli alberi.

Che io ho provato, a andare in camera da letto, il mio appartamento prende i due lati della casa, ho la camera da letto che dà sulla via Emilia e la cucina che dà sul fiume Reno, di solito lavoro in cucina oggi ho provato, a lavorare in camera da letto, non ero neanche entrato in camera da letto che mi sono accorto che stavan tagliando le piante anche dal lato che dà sulla via Emilia, accerchiato dai tagliatori di alberi, allora niente, ho pensato, come viene viene.

Dice Matteo Galli, nel capitolo III de L’invenzione del futuro, Breve storia della letteratura della DDR, capitolo intitolato Cronache di Atlandide, che gli estensori di questa breve storia della letteratura fanno una cosa un po’ paradossale, scrivono una storia della letteratura della DDR all’indomani della fine della DDR.

Che è una cosa che a me ha fatto venire in mente Joseph Roth, e i suoi romanzi che avevano come oggetto l’impero austroungarico e Joseph Roth li scriveva proprio nel momento che l’impero austroungarico stava sparendo, era come se glielo stavano tirando via da sotto i piedi, e questa circostanza, mi vien da dire, rendeva la scrittura di Roth, e i suoi romanzi, urgenti, e in un certo senso preziosi.

Ecco a me, quando lessi i primi romanzi di Roth, li ho letti tardi, pochi anni fa, era venuto da pensare che anche noi, venivamo da un mondo che stava sparendo, e che il mondo in cui ero nato e cresciuto io, che sono nato nel 1963, anche a me in un certo senso me lo stavano togliendo da sotto i piedi, anche se non aveva un nome preciso e impegnativo come Impero austroungarico, però avevo pensato che potevo chiamarlo benissimo anch’io impero austrongarico, quel mondo lì dove c’erano, non so, la domenica mattina in tutte le case si veniva svegliati dal rumore delle lucidatrici, dove c’erano i bicchieri infrangibili, i telefoni a gettone, dove i maschi andavano al bar, e costituivano la famosa clientela dei bar, dove i barbieri si chiamavan barbieri, e le pettinatrici pettinatrici, dove la domenica se suonava qualcuno al campanello di casa era probabile che fosse uno che ti veniva a vendere l’Unità, a domicilio, e tu la compravi non perché ti interessasse l’Unità, ma perché ti faceva piacere comprarla, e ti sembrava bello quel gesto lì, di andare in giro a vendere un giornale senza guadagnarci niente, dove la scuola dell’obbligo finiva alle medie, e alle superiori tutti si erano sentiti dire la celebre frase Questa non è più la scuola dell’obbligo, dove il lavoro in genere veniva pagato, abitudine strana, dove la gente era talmente disperata che qualcuno si metteva a collezionare delle bottiglie mignon di liquori, e ne aveva tantissime, dove le partite di calcio cominciavano tutte lo stesso giorno alla stessa ora, dove fuori dallo stadio vendevano i ceci caldi, d’inverno, dentro dei cartocci di carta unta e gialla a pallini neri, e uno spruzzo di sale, sopra, dove una cubista era una pittrice con delle nostalgie dei primi del secolo, dove i pediatri consigliavano il latte in polvere perché era il progresso, dove se tagliavano gli alberi lo facevano con delle seghe che erano delle seghe, propulsione a mano, dove quando è comparso il fax era sembrata la fine di tutti i problemi, come se non si dovesse neanche più lavorare, dove gli uomini politici erano quasi tutti avvolti in una specie di cappa grigia, e parlavano quasi tutti una lingua incomprensibile, e sembrava che dovesse andar bene così, dove c’erano i mangiadischi che andavano pile, e per la maggior parte, chissà come mai, erano di colore arancione, dove il lucido da scarpe sembrava una cosa della quale non si sarebbe potuto assolutamente mai fare a meno, ecco in questi giorni m’è venuto da pensare che la fine di quel mondo lì, il mio impero austroungarico, ha qualcosa a che fare, come un libro che si chiude, è un po’ l’altra faccia della fine di quel mondo là, della fine del blocco orientale, noi eravamo le pagine pari e loro le pagine dispari, o viceversa, che per voi che vi occupate da anni della questione non dev’essere un’idea nuova ma abbiate pazienza io son quattro giorni, che me ne occupo.

Ecco quella che in Germania est viene chiamata ostalgie, ho scoperto in questi giorni, cioè un sentimento di nostalgia per delle forme di vita nella DDR, è una sensazione che provo un po’ anch’io, sia rispetto all’impero austroungarico italiano, o emiliano, sia rispetto a quella parte del blocco dell’est che ho fatto in tempo a vedere, l’Unione Sovietica, che ho trovato bellissima, con i distributori automatici per le bevande gassate, guai al mondo se ne ho mai trovato uno che funzionava, o i telefoni pubblici che si chiamavano taksofoni, o le scritte luminose sopra le case come Non permettete ai bambini di giocare con i cerini, o l’assenza completa di pubblicità, o una bibita gassata che si chiamava Crèmsoda, o i biglietti del teatro che costavano dei copechi, o la fila per comprare il pane, o la diffusione incredibile dei taxi abusivi, la gente che stava andando a casa da lavorare e se tu allungavi una mano si fermava e ti chiedeva dove dovevi andare e per pochi rubli ti ci portava e muoversi a Mosca, o a San Pietroburgo, sembrava facilissimo, e io, che a Milano o a Roma avevo sempre avuto dei problemi, mi sentivo a casa mia, o l’Amaretto di Saronno che i primi anni che andavo in Russia veniva considerato uno dei prodotti più pregiati dell’industria enogastronomica italiana, e c’erano anche delle imitazioni che io in Italia non avevo e non ho mai più visto, come l’amaretto di Verona, o l’amaretto di Milano ecco queste cose, che fanno parte di un mondo finito, superato, archiviato, sconfitto dalla storia da una ventina almeno di anni, esistono ancora, e continueranno a esistere ancora per un bel po’, che quando una cosa come l’impero austroungarico finisce, ci mette degli anni, a finire, e nel grande blocco orientale secondo me degli stock di Crème soda sono rimasti, così come nelle nostre case, in occidente, e in Italia in particolare, credo ci siano gli ultimi superstiti di quella generazione di bicchieri infrangibili che era venuta fuori con quel nome così presuntuoso e così bello, infrangibili, e che invece, come abbiam visto tutti, si rompevano eccome, e mi vien da pensare a come deve esserci rimasto il primo, in Italia, che ha visto un bicchiere infrangibile andare in mille pezzi, e cosa avrà fatto, avrà telefonato a qualcuno per dirglielo? Avrà mandato un telegramma?

Ecco. Le seghe a motore intanto continuano a lavorare. No no ma fate bene.

Va be’, non so, uno degli autori che sono andato vicino a leggere, tra gli autori della Germania Est, è Uwe Johnson, avevo un libro, suo, I giorni e gli anni, pubblicato nella collana Le comete, di Feltrinelli, solo che quel libro lì quando ci siam separati l’ha preso la mamma di mia figlia allora non l’ho mica mai letto a leggere questa storia della letteratura mi è venuta voglia di leggerlo adesso magari glielo chiedo in prestito, perché ho scoperto che Johnson, quando è passato in occidente, e avuto un grande successo, cito dal saggio di Anna Chiarloni: Lui, ascetico moralista, dell’ovest tedesco disprezza il consumismo frenetico, soprattutto lo disgusta quel grottesco feticismo automobilistico, e io, adesso è un dettaglio, ma quest’estate sono andato ad Amsterdam in macchina con due miei amici, e la cosa che mi ha colpito, a passar dalla Germania, era estate, c’era una percentuale di cabriolet, di macchine decappottabili, e decapottate, in Germania, che io credo di non avere mai visto in nessuno degli stati in cui son passato in macchina. Tutta della gran gente con delle macchine aperte con dei cappelli bizzarri in testa e dei foulard al collo e delle donne bionde di fianco che sembrava che ti dicessero Guardami, guardami come son bello, guarda che bella macchina, che ho, guarda che bella donna, guarda che bei vestiti.

Ecco adesso io, quel periodo che facevo l’università, che avevo cominciato a studiare il russo, una delle altre cose che avevo cominciato a fare era ascoltare la musica jazz, e la cosa che mi piaceva, dei musicisti jazz, era l’atteggiamento loro un po’ generale: era della gente che, diversamente dai musicisti rock, o hard rock, o anche pop, o grunge, che c’era stato anche quello, o indi, che allora non c’era ma adesso mi sembra che ci sia anche l’indi, diversamente insomma da quelli, mi sembrava che i jazzisti, in generale, poi c’erano le eccezioni, mi sembrava che fossero della gente che non aveva bisogno di mettersi delle uniformi, per salire sul palco a suonare. Si vestivano come se facessero un mestiere normale, e vestiti così, da persone normali, salivan sul palco e suonavano. Poi venivano giù, ricominciavano la loro vita da persone normali, o poco normali, però vestite comunque da persone normali, cioè senza divisa.

Ecco, uno a questo punto potrebbe anche pensare Cosa vai a tirare in ballo? Devi parlare di DDR, mica di musica, che è un’obiezione sensata, solo che che a me venuto da parlare di jazz e del comportamento dei musicisti jazz proprio leggendo il libro La DDR, una storia breve, di Ulriche Mälhert, dove a un certo punto si cita un articolo apparso a metà degli anni 50 su Junge Generation, che credo fosse un periodico del movimento giovanile del partico, dove si diceva, cito: Un gruppo di volontari di Sangerhausen si è assunto il compito di riportare l’ordine in un ristorante dove si verificavano spesso risse e i giovani ballavano in modo sfrenato. Il gruppo di volontari ha eseguito due controlli e convinto l’orchestra che la sua musica non contribuisce all’educazione socialista dei giovani. L’orchestra da ballo ha tratto le giuste conclusioni e da allora interrompe immediatamente il ballo quando alcuni giovani iniziano a esagerare. Amici dei gruppi di volontari hanno rimproverato i giovani che bevevano troppo e li hanno invitati a uno scambio di idee dal titolo: “come si comporta un giovane in sala da ballo?”.

Ecco. E non solo.

A rimarcare come il fatto che come ci si comporta in una sala da ballo non è una mia fissazione ma è stata una cosa oggetto di dibattito e di approfondimento anche nella storia dell’est europeo, sempre dal libro La DDR, una storia breve, viene riportata una risoluzione del politbüro dalla SED, cioè il partito unico, praticamente, della DDR, dell’inizio degli anni 60 che dice, cito: Negli ultimi tempi le frequenti discussioni su certe forme di ballo introdotte imitando la mancanza di cultura tipica dell’occidente hanno messo in evidenza le vedute limitate di chi si deve occupare dei giovani. L’atteggiamento del partito al riguardo è chiaro: riteniamo che il ballo sia una legittima espressione della gioia di vivere. Ad alcuni riesce difficile percepire la differenza tra un ballo e una riunione politica. In quest’ultimo caso le questioni propriamente politiche vengono discusse tramite passione e ragione: è soprattutto la testa a entrare in azione. Quando i giovani ballano, invece, è un po’ diverso. È vero che si porta anche la testa, ma sono soprattutto i sentimenti, gli stati d’animo, a trovare espressione. A nessuno viene in mente di prescrivere ai giovani di esprimere i loro sentimenti e stati d’animo solo a passo di valzer o di tango. La scelta del ritmo con cui ballare lasciamola ai giovani.

Ecco, dimostrato che è un argomento che ha a che fare anche con la storia della DDR, quello che volevo poi dire, il motivo per cui ho cominciato tutto questo discorso, che io la prima volta che son stato in Russia, la cosa stranissima, della Russia, ce n’erano tante, di cose strane, ma la cosa forse più strana, era che in Russia, o meglio, nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la gente, a guardarla, sembravano tutti dei musicisti jazz, eran vestiti tutti in un modo normale.

Qualche anno dopo, avevo già finito l’università, mi ero messo a fare l’interprete, e avevo fatto un interpretariato per degli architetti di Piacenza che avevano invitato una delegazione composta dai principali collaboratori di El’cin per l’architettura. Be’, questi architetti russi, eran vestiti un modo, avevano dei girocolli mistolana, ce n’era uno che aveva un cappellino da ciclista, e un borsello a tracollo, e due occhiali con delle lenti spessissime e in mano, sempre, una macchina fotografica, e fotografava tutto. C’erano questi architetti di Piacenza, tutti eleganti, in divisa, gessati, Armani, Versace, erano stupefatti, vedere i loro colleghi ex sovietici, e i loro colleghi ex sovietici uguale, erano stupefatti, a vedere i loro colleghi piacentini, e una volta giel’avevano anche detto. Il capo della delegazione russa aveva detto, al capo della delegazione Piacentina. Sembrate dei patrizi, come siete vestiti. Io avevo tradotto, e il capo della delegazione piacentina era rimasto un attimo così che non sapeva cosa dire poi aveva detto Patrizi? Mia moglie si chiama Patrizia.

Ecco. C’era un centro commerciale, a Mosca, in periferia, si chiamava Raduga, che significa Arcobaleno, e io, era una fesseria, era un centro commerciale, sovietico, nella periferia di Mosca, nel 91, scalcinatissimo, ma era come illuminato da una luce che io e lui sapevamo cos’era.

Era come se la mancata attenzione all’esteriorità, in Russia, il fatto che le cose non ti dicessero continuamente Guardami guardami come son bello, era come se ti obbligassero a guardare, e guardare è una cosa che è come pensare, che noi, a sforzarci, siam capaci di farlo, ma è una di quelle cose che bisogna esercitarle continuamente, come andare in palestra, e l’unione sovietica, per me, quando l’ho vista, è stata come un’enorme palestra di sguardi, e tra le altre cose che avevo guardato, avevo guardato anche un film, in Unione Sovietica, lo facevan vedere sempre l’ultimo dell’anno, si intitolava Ironia del destino, e dentro c’era una canzone, scritta da un certo Aleksandr Aronov, che tradotta un po’ grossolanamente, faceva così: Se non avete una casa, Non c’è da aver paura di incendi, E la moglie non vi lascerà per un altro, Se non avete moglie. Se non avete un cane, Il vicino non lo avvelena, E non litigherete con un amico Se non avete amici. L’orchestra rimbomba di bassi, Il trombettista soffia negli ottoni, Pensate da soli, Decidete da soli, Avere o non avere? Se non avete una zia, Non vi toccherà perderla, E se non vivete, Non vi toccherà morire. L’orchestra rimbomba di bassi, Il trombettista soffia negli ottoni, Pensate da soli, Decidete da soli, Avere o non avere? Ecco. In Russia ti veniva spontaneo di dire Non avere, non avere, non avere.

Ecco, e questa, cosa, che sembra così, un po’ naif, forse, così come naif sembra l’ostalgie, no?, che sembra una cosa da gente che è rimasta indietro, a Bologna li chiamano i rimastoni, be’, secondo me, non c’è niente da fare, si può prendere in giro l’ostalgie, ma il mondo dell’est, adesso dirò una cosa impegnativa, era un mondo più bello; mi viene in mente quel che a un certo punto ha scritto lo scrittore russo Sergej Dovlatov, dagli Stati Uniti d’America, che era il posto dove era diventato famoso come scrittore, dopo che in Unione Sovietica, per anni, gli avevano rifiutato di pubblicargli anche un solo libro.

Be’, Dovlatov, a un certo punto, dagli Stati Uniti d’America, scrive:

Io non discuto. Lo Stato sovietico non è il posto migliore al mondo. E laggiù c’erano tante cose spaventose. Tuttavia c’erano anche cose che non dimenticheremo mai.
Sgozzatemi, squartatemi pure, ma i nostri fiammiferi erano meglio di quelli americani. È una sciocchezza, tanto per cominciare.
Andiamo avanti. La polizia a Leningrado agiva più operativamente.
E non parlo dei dissidenti. Delle malefatte del KGB. Parlo dei normali, banali poliziotti. E dei normali, banali teppisti…
Se si urla su una via di Mosca «Aiuto!», la folla accorre. Qui ti passano accanto.
Là, in autobus, cedevano il posto agli anziani. Qui non succede mai. In nessuna circostanza. E va detto che ci siamo abituati in fretta pure noi.
In generale c’erano molte buone cose. Ci si aiutava a vicenda un po’ più volentieri. E ci si azzuffava senza paura delle conseguenze. E ci si congedava dall’ultima banconota senza tormentosi indugi.
Non sta a me criticare l’America. Io per primo sono sopravvissuto grazie all’emigrazione. E amo sempre di più questo paese. Cosa che non mi impedisce, penso io, di amare la patria che ho lasciato…
I fiammiferi sono una sciocchezza. Sono altre le cose importanti. Esiste il concetto di pubblica opinione. A Mosca era una forza reale. Una persona si vergognava di mentire. Si vergognava di adulare le autorità. Si vergognava di essere venale, furba, cattiva. Le avrebbero chiuso le porte in faccia. Sarebbe divenuta uno zimbello, un reietto. E questo era peggio della galera.

Ecco. Dopo, per finire, io credo che, adesso è difficile dirlo, ma, secondo me, la cosa più triste che può capitare a uno che scrive dei libri, in vita, è diventare uno scrittore importante, assumere quel tono e quell’aria lì che sembra che dica Guardatemi guardatemi come son bello come sono intelligente come sono anticonformista come sono al di sopra di tutto e fiero delle mie scelte.

Ecco quegli scrittori lì, secondo me, gli scrittori ufficiali, che sulla carta di identità potrebbero averci scritto, sotto la voce mestiere: Intellettuale, o, ancora meglio: maitres à penser, ecco quelli lì, mi sbaglierò, ma quelli lì, secondo me, non mi ispirano fiducia. A me ispirano fiducia quelli che un po’ hanno vergogna, del loro ruolo pubblico, che lo guardano con sospetto e come cosa forse inevitabile, ma spiacevole molto. Faccio un esempio all’inizio un po’ strampalato, abbiate la pazienza di seguirmi che abbiamo quasi finito.

A me è successo, come a tutti, di andare a dei matrimoni. Tutti questi matrimoni a cui sono andato, li ricordo tutti, tranne uno, come delle esperienze faticosissime.

Ma perché ci mettono tanto tra l’antipasto e il primo? O forse quello là non era l’antipasto era il primo? E allora perché ci mettono tanto tra il primo e il secondo? E perché la gente è vestita così? E perché io sono vestito così? E chi sono questi qui, seduti di fianco a me? Ma che discorsi fanno? E cosa mi interessano, a me, questi discorsi? E cosa interessano, a loro, i miei? E perché questa musica così alta? E chi è che ha scelto queste canzoni? E perché non ci dan niente da mangiare? E perché c’è così tanto da bere? E cosa vuol dire millesimato? E così via.

Mi è successo anche, una volta, tornato a casa da un matrimonio, che con mio fratello ci siam fatti una pasta olio e parmigiano, alle 11, prima di andare a letto. E non che fossimo, non so come dire, dei grandi mangiatori, non eravamo, per dire, come il nonno dello scrittore russo Sergej Dovlatov, che era altro più di due metri, e pesava più di 100 chili, e beveva la vodka nei bicchieri alti, quelli che i bambini usavano per le limonate, e che quando andavano a cena fuori la moglie lo faceva cenare anche a casa, prima di uscire, perché se no, con quello che mangiava, l’avrebbe fatta vergognare, no, non abbiamo quell’appetito lì, mio fratello pesa meno di settanta chili, io meno di ottanta, non siamo noi, non siamo io e mio fratello, sono i matrimoni che, in un certo senso, sono contronatura.

Be’, mi è successo, un’altra volta, di andare a un matrimonio dove la gente ballava, dei valzer, se non ricordo male. Una grande sala rotonda, illuminata bene, non c’era un grande rumore, camerieri gentili, si respirava, si mangiava, dei piatti di pasta, io ero vestito normale, gli altri eran vestiti normali, solo la sposa e lo sposo erano un po’ eccentrici ma, poveretti, non so come dire, li si compativa, insomma, quel che volevo dire, è che, tornando a casa, quella volta lì avevo pensato che ero stato così bene, non sembrava neanche un matrimonio, quello dov’ero stato.

Io, a me, ma forse sono io, eh, le cose che mi piacciono, sono quelle lì, i matrimoni che non sembran matrimoni, i libri che non sembrano libri, i film che non sembrano film, le domeniche che non sembrano domenica, le vacanze che non sembrano vacanze, i cantanti che non sembrano cantanti, i musicisti che non sembran musicisti, i pittori che non sembrano pittori e anche il contrario, però.

C’era una mia amica che aveva un cugino che, mi ha raccontato, andava in autobus con una basco e delle tele bianche sotto il braccio, era uno che non aveva mai dipinto niente nella sua vita voleva però che gli altri pensassero che era un pittore ecco, queste cose qua, la pittura, la letteratura, son delle cose che hanno un verso, mi viene da dire, dove l’essenza, ammesso che esista, non si manifesta, ma si nasconde, non ha bisogno di manifestarsi, è tutta nella pratica, o nella non pratica.

Ecco, in una storia della letteratura recente, come quella della DDR, in un paese che politicamente è stato così singolare, è inevitabile, probabilmente, parlando di letteratura, accentuare il valore immediatamente politico, e morale, della letteratura, sia nel senso di indicare quali sono gli scrittori che si sono in qualche modo sottomessi al potere politico, prestati ad esso, che nel senso di mettere in luce quelli che, al contrario, al potere politico si sono opposti, e questo è il taglio generale che mi sembra di cogliere nella Breve storia della letteratura della DDR che ho letto in questi giorni.

Ma, secondo me, adesso è difficile dirlo, e poi magari mi sbaglio, se è vero che come diceva Sklovskij il colore della letteratura non riflette mai il colore della bandiera che c’è sulla cittadella del potere, è anche vero che il colore della letteratura non riflette mai il colore della bandiera che c’è sulla cittadella dell’opposizione; lo scrittore, secondo me, ammesso che esista, è uno che, senza volerlo, spacca delle finestre, dove è importante lo spaccare delle finestre ma è importante anche la mancanza d’intenzione e la letteratura, secondo me, ammesso che esista, tra le tante altre cose, uno dei vantaggi che ha, è il fatto di non essere sottomessa alla dittatura dell’attualità, di non dovere per forza parlare delle cose di cui parlano tutti, di poterle ignorare, quelle cose, per occuparsi di cose apparentemente meno interessanti come quelle di cui si occupa Karl Nickel nella sua poesia, che prendo dalla Storia della letteratura che presentiamo oggi, intitolata festa della donna, che vi leggo non in tedesco, ma in italiano:

Festa della donna

Al lavoro alle cinque e mezzo
Alle quattro e mezzo sveglio il bimbo o mi sveglia lui
Colazione in trance, il metro strapieno
Sul lavoro mangio rabbia,
la sera il dramma della spesa:
roba da strapparsi i capelli
e in famiglia sempre casino
vorrei sapere perché faccio così
mio marito fa più di quanto possa pretendere
porta lo stipendio, studia e io mi comporto ancora così!
in fondo dovrebbe buttarmi fuori:
e io potrei prendermi a schiaffi.

Ecco a me queste cose, non so a voi, a me delle poesie del genere mi fan piangere, perché parlano di me, delle mie decisioni, del mio modo di usare le mani, e di guardare quelli che abitano con me, mia mamma, mia figlia, i miei colleghi di lavoro, i miei amici, parlano della mia vita, non della vita di quelli che si illudono di governarmi, e di governarci, ma della nostra vita, del modo in cui ascoltiamo i nostri genitori, i nostri figli, del tempo che gli dedichiamo, della gentilezza, che non costerebbe niente, della libertà, che non ci è concessa dall’alto, ma che possiamo prenderci, se ne siam capaci, con le nostre mani, per conto nostro, tutti i giorni, tutti i minuti.

Un poeta che ha scritto le cose più belle che io abbia mai letto, Velimir Chlebnikov, una volta ha scritto che, nel 900, non basta più il diario, ci vuole il minutario; ecco, una volta presa, tutti i minuti, quella libertà, la relazione che c’è con il resto, con l’attualità, con i governi, con le mode, non dipende da noi e non è neanche importante, e questa cosa a me sembra sia stata espressa in modo esemplare da Viktor Sklovskij in un articolo che è dedicato al pittore Ivan Puni e che è contenuto in un libro che si intitola La mossa del cavallo, che è il pezzo con cui si conclude il mio intervento, e con questo vi ringrazio per l’attenzione e mi scuso se ho parlato poco, della DDR, ma son solo quattro giorni che me ne occupo, e mi scuso se ne ho parlato in modo confuso, ma qua intorno c’eran dei boscaioli che mi han fatto venire un nervoso che va ancora bene che non è successo niente di brutto.

Ivan Puni

Ivan Puni è l’uomo timido per eccellenza. Ha capelli neri, parla piano, suo padre era italiano. Ho veduto di questi timidi sullo schermo cinematografico.
Ecco un imbianchino che se ne va con una lunga scala sulla spalla. Modesto, silenzioso. Ma la scala urta i cappelli dei passanti, fracassa i vetri, ferma i tram, distrugge case.
Puni invece dipinge.
Se dovessimo raccogliere tutte le recensioni scritte su di lui in russo e spremerne il furore, si potrebbero raccogliere alcuni secchi di liquido molto corrosivo e inoculare con questo la rabbia a tutti i cani di Berlino.
I cani a Berlino sono 500.000.
Puni offende la gente perché non si beffa mai di nessuno. Dipinge un quadro, lo guarda, pensa: Io non c’entro, doveva essere fatto così.
I suoi quadri sono irrevocabili e obbligatori. Egli vede lo spettatore, ma è organicamente incapace di tenerne conto. Accetta gli insulti dei critici come un fenomeno atmosferico.
Fintanto che vive, conversa. Così Colombo navigando verso l’America non ancora scoperta, giocava a scacchi seduto sulla tolda.
Per ora Puni è un pittore per pittori. Questi non lo capiscono ancora, ma già s’inquietano.
Dopo la sua morte – non la desidero, sono suo coetano e anch’io solo, – dopo la morte di Puni, erigeranno un museo sopra la sua tomba. Vi saranno appesi i suoi calzoni e il suo cappello.
Diranno: guardate come fu modesto quest’uomo geniale, con quel cappello grigio calcato sulle sopracciglia, nascondeva i raggi che gli irradiavano dalla fronte.
Qualcuno scriverà qualcosa anche sui suoi calzoni.
Infatti, Puni sa vestirsi.
Attaccheranno al muro la bolletta del gas di Puni, la pagheranno proprio per questo. Chiameranno «punico» il nostro tempo. Possano coprirsi di lebbra tutti coloro che verranno a coprire le nostre tombe con le loro menzioni onorevoli.
A nome nostro opprimeranno le generazioni venture. È così che si fanno le conserve alimentari.
Riconoscere un pittore è il mezzo più sicuro per renderlo innocuo.
Ma forse un museo non ci sarà?
Faremo del nostro meglio.
Intanto Puni, con un sorriso cortese, dipinge attentamente i suoi quadri. Sotto la giacca grigia porta una furibonda volpe rossiccia, che lo mangiucchia a poco a poco. È molto doloroso, anche se da antologia scolastica.