Eccetera

mercoledì 23 Maggio 2018

La scrittura sovversiva, disarmonica, «goffa» di Dostoevskij, la sua costante violazione delle norme (stilistiche, grammaticali, lessicali – d’ogni genere) suscitò fin dagli inizi giudizi severi. Perfino parodie. Dopo la pubblicazione del Sosia (1846), Konstantin Aksakov accusò l’autore di aver copiato Gogol’, di averne saccheggiato i «procedimenti stilistici»: «Non è difficile fare propri questi procedimenti,» scrisse facendogli il verso «già, questi procedimenti non sono affatto difficili da far propri, del resto farli propri non è assolutamente cosa difficile. Ma non è così che si fa, signori miei, non è questo il modo, signori miei, no, signori, il modo non è affatto questo. Qui ci vuole, sapete, qualcosa; vedete, di qualcosa c’è bisogno, c’è un gran bisogno di questo e di quello ancora, di qualcosa, insomma. Proprio questo non c’è: talento, signori miei, già, vedete, talento, quello poetico, voi mi capite, signori, cioè quello artistico, ed è proprio quello che manca…».
Da molti, anche in seguito, lo «stile» dostoevskiano fu accusato di prolissità, monotonia, enfasi, sentimentalismo, eccesso – di ripetizioni, epiteti altisonanti, prestiti dal parlato e dal linguaggio e delle cancellerie, diminutivi e così via. Tolstoj diceva «Nonostante l’orrenda scrittura, in Dostoevskij si trovano pagine straordinarie», mentre Nabokov spiegava ai suoi studenti americani: «La fastidiosa ripetizione di parole e frasi, l’intonazione di chi è posseduto da un’idea ossessiva, l’assoluta banalità di ogni parola e la magniloquenza a buon mercato caratterizzano lo stile di Dostoevskij…». Quanto al periodo sovietico, di ben più gravi colpe fu imputato lo scrittore «reazionario» che «predicava il cristianesimo e lottava contro l’ateismo, che rifiutava i metodi violenti della lotta rivoluzionaria», ecc.

[Serena Vitale, Nota al testo, in Fëdor Dostoevskij, La mite, a cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi 2018, p. 100]