Dove finisce Roma

sabato 17 Marzo 2012

Un mio amico che si chiama Giovanni Maccari ha pubblicato, lo scorso anno, una romanzo su Isaak Babel’ intitolato Gli occhiali sul naso, titolo tratto dal racconto Cose di Odessa, che finisce così: «Voi sapete tutto, ma a cosa vi serve, se continuate ad avere gli occhiali sul naso e l’autunno nell’anima?».
Un aspetto singolare, di questa faccenda, è il fatto che Giovanni non conosce il russo, non è mai stato in Russia e credo non immagini nemmeno di andarci in futuro.
Sarebbe come, ho pensato io quando ho preso in mano il libro, se a me venisse in mente di scrivere un romanzo ambientato in Cile.
Solo che il romanzo di Giovanni Maccari funziona, è una delle cose che ho letto l’anno scorso che mi son rimaste più impresse, tanto è vero che ho anche pensato, per un attimo, di scrivere un romanzo ambientato in Cile, magari sul poeta Nicanor Parra, che è il fratello maggiore di Violetta Parra, e che è uno che, per restare in tema, a un certo punto scrive: «La tortura non dev’essere sanguinaria. A un intelettuale, per esempio, basta nascondere gli occhiali» (traduzione di Stefano Bernardinelli).
Allo stesso modo mi vien da pensare che mi avrebbe dovuto stupire il fatto che un’altra mia amica, Paola Soriga, ha ambientato il suo romanzo d’esordio, Dove finisce Roma, appena uscito per Einaudi Stile Libero, tra il 1938 e il 1943, lei che è nata nel 1979; solo che questa volta non ho pensato che sarebbe come se io scrivessi un romanzo sulla prima guerra mondiale.
Forse non l’ho pensato perché la protagonista di questo romanzo di Paola Soriga, Ida, una bambina sarda di 12 anni che nel ’38 si trasferisce a Roma, poi partecipa alla resistenza, diventa staffetta partigiana.
Ecco, quelle parole lì, ‘resistenza’ e ‘partigiano’, che quand’ero giovane io, e le sentivo pronunciare dai palchi ufficiali, a me sembravano parole piene di fumo e di retorica, negli ultimi vent’anni, sparite dai palchi ufficiali, sono state, mi sembra, vivificate, hanno ripreso significato, e mi vien da pensare che è proprio vero quel che diceva Aleksandr Zinov’ev che tutto quello che è ufficiale è falso, e che forse è vero anche il contrario, che tutto quello che è ufficioso, è vero.
E non mi sorprende che una ragazza dell’età di Paola scriva un romanzo ambientato in quegli anni, anche perché quella, mi sembra, la storia della resistenza e della seconda guerra mondiale, è una storia che non abbiamo ancora capito tanto bene, e, anche per quello, credo, abbiam nella testa una gran confusione su quello che siamo e sul posto in cui siamo.
E il romanzo di Paola, oltre a essere un romanzo pieno di parole delicate, come ‘trabattello’, e ‘dattilografare’, e di frasi memorabili, come «Non si dovrebbe mai partire con il cuore litigato», è un romanzo dove Ida continuamente si deve ricordare di essere a Roma, proprio «a Roma che è qui che c’è stata la storia».
E anche se, a tratti, non capisco bene la scelta di raccontare la vicenda in terza persona, con un narratore onniscente al quale, però, ogni tanto, viene l’esaurimento nervoso (per esempio a pagina 109 quando non si ricorda di che gusto era un cono gelato), mi piace molto il fatto che il centro di questo romanzo è quel che succede dentro Ida in quegli anni, e quel che succede dentro Ida è una banale, comunissima, feroce storia d’amore, che, anche durante la resistenza, è quel che «move il sole e l’altre stelle», e mi viene in mente Nino Pedretti, e la sua poesia I partigiani, che dice così: «Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista, noi eravam persone, e loro marionette».

[è uscito ieri sul Foglio]