Cosa ci possono fare

mercoledì 7 Luglio 2010

7-luglio

Cosa ci possono fare

discorso sui fatti di Reggio Emilia del 7 luglio del 1960
pronunciato al teatro Ariosto di Reggio Emilia
il 7 luglio del 2010
nell’ambito del convegno
«Lavoro, libertà, democrazia
nel cinquantesimo anniversario del 7 luglio 1960»

Buongiorno a tutti, ringrazio per avermi invitato, e ringrazio per avermi dato la possibilità di lavorare ancora su questo, non so come dire, argomento, forse, anche se è strano, chiamare la cosa di cui parliamo oggi un argomento, non è mica un argomento, è una cosa dentro la quale c’è un po’ tutto; se uno comincia a studiare quel che è successo il 7 luglio del 1960 a Reggio Emilia, partendo da lì può parlare di tutto, mi sembra, e io, oggi, ho pensato di parlar della paura, cominciando dalla mia, paura, e continuando con la nostra, paura, e quel passaggio lì, mia – nostra, io – noi, anche quello lì non è mica un argomento, anche lì mi sembra che ci sia della sostanza, della roba che a me, per come son fatto, mi dà da pensare, e da pensare mi danno i cosiddetti fatti di Reggio Emilia e il 7 luglio del 1960, e quel che è successo qui vicino, su questa piazza che c’è qui davanti che adesso si chiama Piazza dei Martiri.
Ecco su questa piazza, qui di fianco c’è un altro teatro, che si chiama Cavallerizza, dove nel 2006, quattro anni fa, io ho fatto una lettura quasi integrale di un romanzo che ho scritto su questi fatti, sul 7 luglio del 1960. Ecco quel giorno lì io avevo paura; io avevo paura perché le cose che avevo scritto mettevan le mani dentro una cosa che, in un certo senso, come si dice con una frase fatta, con un modo di dire, appartiene alla storia d’Italia, e, se accettiamo la vaghezza dei modi di dire, questa cosa qua è anche vera; anche se le tracce, nei libri di testo, nelle enciclopedie, di questa cosa, di quel che è successo sulla piazza qui di fronte il 7 luglio del 1960, le tracce, dicevo, son molto labili, quasi nulle, e imprecise, false, a volte, a volte vien da pensare artatamente falsificate, e viene da chiedersi cosa sarebbe rimasto, di questa memoria, se non ci fosse stata una canzone, la canzone di Fausto Amodei Per i morti di Reggio Emilia, e a me da parte mia vien da dire che senza quella canzone il romanzo che ho scritto probabilmente non esisterebbe perché, probabilmente, io non avrei saputo niente, dei morti di Reggio Emilia, senza quella canzone.
Invece quella canzone esiste, e io ho saputo qualcosa, dei fatti di Reggio Emilia, e dopo i fatti di Genova del 2001, a me è venuto in mente di scrivere un romanzo sulla violenza dello stato, e ho pensato a quella canzone, e ho scritto il romanzo, e la prima uscita pubblica è stata una lettura quasi integrale al teatro La cavallerizza, qui di fianco, e quel giorno lì io avevo paura, perché con questo romanzo io avevo l’impressione di aver messo le mani dentro una cosa che è vero, che appartiene alla storia d’Italia, ma è una cosa che appartiene anche alla storia di cinque famiglie che io non lo sapevo, come l’avrebbero preso, il romanzo che avevo scritto, e che quella sera sarebbero state lì, a sentirlo, e avevo paura.
Dopo è successo che quando la lettura è finita, dopo più di quattro ore, Ettore Farioli, il figlio di Lauro Farioli, è venuto dietro il palco e mi ha abbracciato, e io, per me, quello lì, sono cose difficili da dire, ma per me è stato un po’ come una benedizione, una benedizione laica, ma queste cose qua, quell’abbraccio lì di Ettore Farioli, e le cose che mi ha detto Silvano Franchi, il fratello di Ovidio, e le cose che mi ha scritto Alberta Reverberi, la figlia di Emilio, ecco quelle cose lì, per me, io, questo libro ha vinto un premio, l’unico premio letterario che ho vinto per un romanzo che ho scritto io, il premio Liugi Russo Pozzale, a pari merito, a pari merito con Gomorra, di Saviano, io lo dico adesso, che son passati quattro anni ma non l’ho detto praticamente a nessuno, quando è successo, son cose che uno si vergogna, e l’unico a cui ho telefonato per dirlo, tranne i miei amici, quelli che vedevo spesso in quel periodo lì, che lì, Dove vai? Eh devo andare ad Empoli, A far cosa? Eh, mi danno un premio, Che premio, e così via, ma l’unico al quale ho telefonato apposta per dirglielo, è stato Silvano Franchi, e lui mi ha detto che era molto contento, e mi ha fatto molti auguri per il mio futuro e la mia carriera, lui, a me, come una specie di benedizione, e io ho l’impressione che quella gente lì, i cosiddetti familiari delle vittime dei fatti di Reggio Emilia, per una questione che io non so spiegarla, per il carico che han portato tutti questi anni, da soli, quelle son cose che si portano da soli, per quel fatto lì, è gente che, quello che dice, è più pesante, vale di più di quel che posso dire io, o voi, è gente che ha patito tanto, senza colpa, che ha le mani benedette, in senso laico, che dove mettono le mani crescono i fiori, e che quando parlano, quando Lauro Farioli dice, parlando di suo padre, che è stato ucciso quando lui aveva due anni, Non mi ricordo niente, Mi son dovuto attaccare a una fotografia, quando dice, parlando di quel che è successo il 7 luglio del 1960 Queste son cose che la scuola, le istituzioni, se ne dovrebbero far carico, questa cosa qua, detta da lui, ha un peso che, detta da me, o da voi, non ce l’ha. E questa gente qua, secondo me, loro, sono, involontariamente, una cosa della quale io, personalmente, e credo anche voi, quindi noi, abbiam bisogno.

Mi spiego meglio. Faccio una digressione, voglio leggervi un breve racconto di Gianni Rodari, si intitola A comprare la città di Stoccolma, e fa così:

A comprare la città di Stoccolma

Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e di più bravi di loro a vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l’Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un’ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma.
La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione. Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: Proprietario della città di Stoccolma, e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
– È una città della Svezia, anzi è la capitale.
– Ha quasi un milione di abitanti, e naturalmente sono tutti miei.
– C’è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario.
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l’anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà. La città di Stoccolma gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
– Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l’hanno fatto, il comunicato?
Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perché non capivano ma erano gentili, e il barbiere si fregava le mani tutto contento:
– Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L’ho proprio pagata a buon mercato.
E invece si sbagliava, e l’aveva pagata troppo. Perché ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo, deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.

Ecco, a me questo racconto fa venire in mente un mio amico di Modena, che una volta, per una enciclopedia anarchica che c’è in rete, gli hanno chiesto di dare la definizione della parola Antiamericanismo, e lui ha risposto L’antiamericanismo non ha senso, perché l’America è di tutti, e non possiamo essere contro qualcosa che è di tutti.

Ecco, secondo me, la gente che è andata in piazza il 7 luglio del 1960, io in questo movimento, nel fatto di andare in piazza, nonostante la polizia avesse già reagito in modo violento nei giorni precedenti, nel fatto di andare in piazza proprio contro la violenza della polizia, che è stato quello che è successo a Reggio Emilia il 7 luglio del 1960, io ci leggo due cose, la prima è che questa piazza qui, la piazza dei teatri, è di tutti, e tutte le piazze e le strade e i viali di Reggio Emilia e di tutte le città dell’Emilia e dell’Italia e del Mondo, sono di tutti: la seconda che non bisogna avere paura.

E a me sembra che i famigliari di Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, questa cosa qua, che gli hanno ucciso il fratello, o il padre, o il figlio, quand’erano in vita i genitori, son cinquant’anni che la guardanno in faccia, senza avere paura, ce l’hanno lì, tutti i giorni, è lo zaino che si mettono addosso quando escon di casa, e questa cosa, questo peso, questo zaino, ai miei occhi, li ha vivificati, li ha benedetti, li ha fatti diventar degli esempi, e, per quanto sia difficile, sarebbe bello se io, se noi, mi viene da dire, riuscissimo perlomeno a provare a far come loro.

C’è un libro di Kapuscinski sull’Iran, si intitola Sha in sha, e a un certo punto Kapuscinski dice così:

I libri sulle rivoluzioni inziano di solito con un capitolo dedicato alla corruzione del potere in declino, alla miseria e alle sofferenze del popolo. Dovrebbero invece cominciare con un capitolo di analisi psicologica dove si spieghi il processo per cui un uomo oppresso e in preda al terrore vince improvvisamente i suoi timori e smette di avere parua. È un processo insolito, che talvolta si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, non ci sarebbe alcuna rivoluzione.

C’è una canzone, che ho sentito cantare recentemente dal coro delle mondine di Novi, dove c’è quel ritornello famoso: Sì ben che siamo donne, paura non abbiamo, che a me mi commuove perché la cantava mia nonna, e mia nonna, i suoi eran mezzadri, e eran diciassette fratelli e sorelle, e suo marito, mio nonno, era orfano, e eran così poveri, anzi, c’era una miseria, a Parma si dice In casa nostra c’era una miseria, che quando siam diventati poveri abbiam fatto una festa.

Ecco mia nonna, quando si è sposata, mi han raccontato che le sue amiche le avevan chiesto come mai avevo sposato un uomo così brutto, girava la voce che mio nonno era brutto, secondo me era non bello, bellissimo, ma allora dicevano che era brutto, non era tanto alto, i capelli rossi, le lentiggini.

Be’ mia nonna una volta me l’ha spiegato, perché aveva sposato mio nonno. C’era stato un furto, e i carabinieri gli erano entrati in casa con le armi spianate per perquisirgli la casa, e Tuo nonno, mi ha detto mia nonna, li guardava in faccia come per dirgli E allora? Credete di farci paura? Non ci fate mica paura.

Che va be’, mio nonno poi è mio nonno, e io, essendo lui mio nonno, e quel nonno lì, io gli voglio un bene che non si può dire ma secondo me, al di là del fatto che era mio nonno, aveva ragione mio nonno, e lo diceva già un altro, tempo prima: Cosa ci possono fare? Ci possono ammazzare, ma non ci possono fare del male. Grazie.