Ci si può innamorare dappertutto

sabato 9 Dicembre 2017


Il secondo romanzo che ho pubblicato si intitolava Bassotuba non c’è, e cominciava con una frase, «Io sono quello che non ce la faccio», che era un anacoluto, cioè una frase dove c’era un brusco cambiamento di soggetto che, sintatticamente, era un errore, errore che si ripeteva molte volte, dentro il romanzo, il cui protagonista, che si chiamava Learco Ferrari, parlava in una lingua concreta, simile alla lingua che si parlava a Parma per strada, una lingua grezza, non raffinata, mi verrebbe da dire, senza preoccupazioni di correttezza sintattica, morfologica e lessicale, una lingua che a me, devo confessare, piaceva.
Mi ricordo la prima presentazione del libro, alla festa dell’Unità di Parma, e una signora che mi aveva detto «Ma lei, quando parla, però, li usa, i congiuntivi», e l’aveva detto con un tono come se mi avesse preso in castagna, come per dire «Come la mettiamo, come lo spiega, questo fatto?».
Che era una domanda bellissima, secondo me, che supponeva un’identità assoluta tra autore e protagonista.
A me era venuto in mente un racconto di Tolstoj, che si chiama Cholstomer, il cui protagonista, e io narrante, è un cavallo, e mi ero chiesto se Tolstoj, quando aveva presentato Cholstomer, ammesso che all’epoca in Russia si presentassero i racconti (era il 1886), mi ero chiesto se qualcuno gli avesse fatto notare «Lei però, mi scusi, eh?, ma lei non è un cavallo».
Ecco. Bisogna stare attenti.
Ci sono degli autori, però, che questa identità, o vicinanza, tra l’io narrante dei loro libri e loro stessi, non solo la fanno supporre, la sottolineano, la spingono, la impongono, quasi (solo in Francia, tra i contemporanei, mi vengono in mente Carrère, Beigbeder e Grégoire Bouiller, il cui primo romanzo si intitola Rapport sur moi, bellissimo titolo, secondo me, che in italiano diventa Rapporto su me stesso).
In Italia, prima che ci fosse la moda della cosiddetta autofiction, la fiction che parte dall’autobiografia, Cesare Zavattini esordisce nel 1931 con un libro intitolato Parliamo tanto di me, che comincia con un Ritratto dell’autore che fa così: «Sul tavolo da lavoro ho pochi oggetti: il calamaio, la penna, alcuni fogli di carta, la mia fotografia. Che fronte spaziosa! Cosa mai diventerà questo bel giovane! Ministro, re? Guardate il taglio severo della bocca, guardate gli occhi. Oh, quegli occhi pensosi che mi fissano! Talvolta provo una vera soggezione e dico: sono proprio io! Mi do un bacio sulle mani pensando che sono proprio io quel giovane, e mi rimetto a lavorare con lena per essere degno di lui». E nel secondo libro di Zavattini, che si intitola I poveri sono matti e esce nel 1937, Zavattini rimette in gioco Zavattini in un modo stranissimo. Il libro comincia così: «Voglio insegnare ai poveri un gioco molto bello.
Salite le scale con il passo del forestiero (quella volta rincaserete più tardi del solito) e davanti al vostro uscio suonate il campanello.
Vostra moglie correrà ad aprirvi, seguita dai figli. È un po’ seria per il ritardo, tutti hanno fame. «Come mai?» domanda.
«Buona sera, signora», levatevi il cappello e assumete un’aria dignitosa. «C’è il signor Zavattini?». «Su, su, il lesso è già freddo».
«Scusi, ho bisogno di parlare con il signor Zavattini». «Cesare, andiamo, vuoi sempre giocare…». Non muovetevi e dite: «Evidentemente si tratta di un equivoco. Scusi, signora…». Vostra moglie si volterà di scatto, vi guarderà con gli occhi spalancati. «Perché fai così?». Serio, state serio, e ripetete avviandovi giù per le scale: «Io cercavo il signor Zavattini». Si farà un gran silenzio, udrete solo il rumore dei vostri passi. Anche i bambini sono restati fermi. Vostra moglie vi raggiunge, vi abbraccia: «Cesare, Cesare…». Ha le lagrime agli occhi, i bambini forse cominceranno a piangere. Scioglietevi con delicatezza dall’abbraccio, allontanatevi mormorando: «È un equivoco, cercavo il signor Zavattini». Rientrate in casa dopo una ventina di minuti fischiettando. «Ho tardato tanto perché il capo ufficio…» e raccontate una bugia come nulla fosse avvenuto. Vi piace? Un mio amico a metà giuoco si mise a piangere».
A questo punto, qualsiasi cosa di quel marziano in forma di reggiano che si chiamava Cesare Zavattini, diventa parte del personaggio Cesare Zavattini, che a me sembra uno straordinario protagonista della letteratura italiana del novecento: anche le lettere, anche i diari, raccolti in un’autobiografia postuma (a cura di Paolo Nuzzi) da Einaudi Stile libero (intitolata Io), dove si scopre che a Parigi, nel 1938, «sapendo poco la lingua» Zavattini mangiava sempre e solo omelettes perché sapeva dirlo. E anche gli appunti, come questo: «Alzi la mano chi non si gratta mai i coglioni». E anche le cose dette da altri, come questa: «Io voglio morire lo stesso giorno che non sono più buono di vestirmi e di svestirmi da solo». E i ricordi, come questo: «La pianola di mia nipote Nicoletta, a schiacciare i diesis alti veniva fuori il suono del clacson». E anche le confessioni, come questa: «Certe parole in dialetto mi piacciono quasi come le donne». E anche le poesie, come questa: «Ci si può innamorare dappertutto / ma dove si è nati di più. / Quando ha alzato gli occhi / e mi ha detto di sì / invece di baciarla / son stato lì a guardarla». E anche le frasi perse dalle lettere, come questa: «Sono un pessimista ma me ne dimentico sempre». E anche gli scherzi, come questo: «Entrate in un negozio, acquistate mille lire di merce. Poi uscite senza pagare. Se il padrone e i commessi vi rincorreranno dite secco secco: “Pesce d’aprile.” E rideranno anche i sassi». E anche nelle opere teatrali dove Zavattini non compare, come quella che si intitola La torre di Babele, e che è stata pubblicata in un libro che si intitola Al macero (pubblicato nel 1976), e che è il testo con cui finisco questo pezzettino, anche in quest’opera teatrale dove Zavattini non c’è, sembra però di vederlo, in un angolo, col basco, e gli occhiali, vestito di nero, che sta a attento a fare una faccia seria: «La torre di Babele. Nella piana di Sennaar. Il fratello non intende il fratello, l’amata l’amante. Campeggia tragica la Torre, sovra gli uomini resi stranieri l’uno all’altro. È il crepuscolo. S’odono imprecazioni in istrane lingue, sospiri. Due manovali siedono su un cumulo di pietra, mesti. Verso oriente partono torme di audaci, in cerca di chi li possa intendere.
Primo manovale: – C’èst bien effrayant de vivre sans pouvoir parler (come parlando a se stesso) avec une âme vivante!
Secondo manovale: – Oh, yes!
Sipario».

[Uscito ieri sulla Verità]