Tutti gli anni

domenica 30 Dicembre 2018

Una cosa

domenica 17 Dicembre 2017

[Mi segnalano (grazie Sissi) che Tim Parks ha la bontà di paragonare l’inizio della mia traduzione delle Memorie del sottosuolo con altre due, sul Sole 24 ore di oggi; nell’articolo di Tim Parks non c’è il testo di Dostoevskij, che c’è in questo pezzetto che prendo da Pubblici discorsi, che è un libro di 10 anni fa (i tre puntini, poi, mi sono accorto, c’erano anche nell’originale)]

L’inizio in russo è così: Ja celovek bol’noj, ja sloj celovek, ne privlekatel’nyj ja celovek; ja dumaju, chto mne bolit pecen’, che tradotto più o meno sarebbe Io sono un uomo malato, un uomo cattivo, sono, un brutto uomo, sono io; credo di esser malato di fegato. Che è un inizio dove Dostoevskij costruisce una specie di trottola sonora, nella quale il pronome, ja, io, il sostantivo, celovek, uomo, e l’aggettivo, bol’noj, sloj e neprivlekatel’nij, sono sempre presenti nelle prime tre frasi ma si cambiano di posto, Ja celovek bol’noj, Ja sloj celovek, Neprivlekatel’nyj ja celovek. È una cosa che fa girare la testa, dal tanto che è fatta bene, secondo me; con questa frase, quasi esclusivamente con l’involucro sonoro della frase, Dostoevksij ci dà il carattere del personaggio; l’uomo del sottosuolo, contraddittorio disperato ridicolo così simile a noi, è già tutto qui: Io sono un uomo malato, un uomo cattivo, sono, un brutto uomo, sono io. Credo di essere malato di fegato.

Ecco, sono andato a prendere la traduzione di Ricordi dal sottosuolo nell’edizione dei classici della Bur: Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. Il suono, di Dostoevskij, la trottola sonora, non c’è più. Ci han messo anche tre puntini dopo malato che chissà da dove saltano fuori. Il suono, nelle traduzioni in prosa, stranamente, sembra che non gliene freghi niente a nessuno. Come se il suono non fosse l’equivalente del significante, e come se non sapessimo tutti che significato e significante vanno via insieme, come ci hanno insegnato.

Tre poesie (di Raffaello Baldini)

martedì 11 Aprile 2017

Coglioni

Si dice bene i coglioni, ma loro, io ne conosco più d’uno, si credono d’essere, non lo sanno che sono dei coglioni, e si sposano, hanno figli, e i figli sono figli di coglioni, che io non dico mica, il babbo è il babbo, tu non abbia da voler bene al tuo babbo, portargli rispetto, però questi figli, non lo so, io, non se n’accorgono? Quando parlano con il loro babbo, non lo vedono, non lo sentono? O sono coglioni anche loro? Che allora lì è fatica, fra coglioni, ecco, sì, no, c’è delle volte che gli scappa detto: il mio babbo è un coglione, ma in un altro senso, nel senso che è buono, che è un galantuomo, che questo però è un discorso, come sarebbe allora? i galantuomini sono dei poveri coglioni? Intendiamoci, può essere che un coglione sia un galantuomo, può essere che sia buono, ma può essere anche cattivo, ci sono i buoni e i cattivi anche tra i coglioni, coglione non vuol mica dire, uno è un coglione, ma può andare vestito bene, portare gli occhiali, può essere anche, guarda io quello che ti dico, può essere anche intelligente, e nello stesso tempo coglione, che è un caso eccezionale, ma succede, essere coglione è una cosa, può essere tutto un coglione, puà essere anche istruito, può essere perfino laureato, certo che se è ignorante, i coglioni ignoranti, quelli sono una disgrazia, non si ragiona, è come parlare al muro, e prepotenti, che uno, io capisco, quando dico che un coglione può essere tutto, uno può rimanere disorientato, gli viene da dire: allora se uno è un coglione, in cosa si distingue? Insomma, cosa vuol dire essere un coglione? cos’è la coglionaggine? Eh, questa è una domanda, è fatica, come si può dire? Fammi pensare, non c’è un esempio? ecco, i coglioni fanne le cose alla rovescia, e tu li vedi che sbagliano, tu lo sai come andrebbero fatte, provi a dirglielo, anche con le buone maniere, ma loro niente, tirano dritto, tu cerchi di dargli una mano, di metterli sulla buona strada, loro ti guardano con un’aria: adesso cosa vuole questa testa di cazzo? e allora va a finire che t’arrabbi: Sono dei coglioni! Ti sfoghi in piazza, e in piazza c’è anche qualcuno che ti ascolta: Hai ragione, sono coglioni, però. Però? Cosa si può fare? sono tanti, comandano loro.

Tom

Quanto abbiamo giocato con Tom, quel che mi sono divertito, ma intelligente, era il cane di mio zio, più intelligente di lui.

Coglioni (2)

Dunque, no, fammi capire, i coglioni tu vedi che sbagliano, gli vorresti dare una mano, metterli sulla buona strada, ma siccome sono coglioni non ti stanno a sentire, e tu ti arrabbi, ho capito bene? solo che, secondo me, che sbaglierò, però, da quello che vedo, non ti stanno a sentire perché la buona strada, ce n’è tanti che l’hanno già trovata, sono pieni di soldi, case macchine, tutto, che noi, io e te, sono cose che non le abbiamo, e magari neanche le vogliamo, però loro le hanno, e se le tengono, e io, capisco anch’io quello che vuoi dire, loro danno valore a delle cose che non ce l’hanno, seguono le mode, che noi, se avessimo noi i loro soldi, solo che non li abbiamo, non abbiamo una lira, e io, adesso non arrabbiarti anche con me, ma delle volte, non sarà, mi vene da pensare, che i coglioni siamo noi? Siamo io e te?

Una cosa che leggo stasera a San Pietroburgo

sabato 25 Giugno 2016

Pubblici discorsi

Ecco io l’altro esempio che vorrei fare riguarda l’inizio di Memorie dal sottosuolo di Dostoevsij, o Ricordi dal sottosuolo, o Appunti dal sottosuolo, anche questa storia dei titoli, una volta ho visto un romanzo di Dostoevskij che si intitolava Gli indemoniati, Vacca, ho pensato, un inedito, invece era I demòni che gli avevan cambiato titolo. Ma torniamo all’inizio di Memorie dal sottosuolo, o Ricordi dal sottosuolo, o Appunti dal sottosuolo.

L’inizio in russo è così: Ja celovek bol’noj, ja sloj celovek, ne privlekatel’nyj ja celovek; ja dumaju, chto mne bolit pecen’, che tradotto più o meno sarebbe Io sono un uomo malato, un uomo cattivo, sono, un brutto uomo, sono io; credo di esser malato di fegato. Che è un inizio dove Dostoevskij costruisce una specie di trottola sonora, nella quale il pronome, ja, io, il sostantivo, celovek, uomo, e l’aggettivo, bol’noj, sloj e neprivlekatel’nij, sono sempre presenti nelle prime tre frasi ma si cambiano di posto, Ja celovek bol’noj, Ja sloj celovek, Neprivlekatel’nyj ja celovek. È una cosa che fa girare la testa, dal tanto che è fatta bene, secondo me; con questa frase, quasi esclusivamente con l’involucro sonoro della frase, Dostoevksij ci dà il carattere del personaggio; l’uomo del sottosuolo, contraddittorio disperato ridicolo così simile a noi, è già tutto qui: Io sono un uomo malato, un uomo cattivo, sono, un brutto uomo, sono io. Credo di essere malato di fegato.

Ecco, sono andato a prendere la traduzione di Ricordi dal sottosuolo nell’edizione dei classici della Bur: Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. Il suono, di Dostoevskij, la trottola sonora, non c’è più. Ci han messo anche tre puntini dopo malato che chissà da dove saltano fuori. Il suono, nelle traduzioni in prosa, stranamente, sembra che non gliene freghi niente a nessuno. Come se il suono non fosse l’equivalente del significante, e come se non sapessimo tutti che significato e significante vanno via insieme, come ci hanno insegnato.

Un quartiere

venerdì 25 Settembre 2015

[Sto scrivendo il discorso che devo leggere sabato a Santa Margherita al Festival della punteggiatura e c’è un pezzo dove parlo del posto dove ho scritto i primi quattro romanzi che ho pubblicato che a me è un posto che mi sembra ancora stupefacente, a pensarci, avere abitato per decenni in quel posto lì]

Ecco. Allora, per me, la mia tesi è molto semplice e la dico chiaramente fin dal titolo: per me, la punteggiatura, è proprio il confine che divide la lingua parlata dalla lingua scritta, e fare degli esercizi di sbobinatura, prendere dei discorsi orali e metterli per iscritto cercando di far sentire la voce e l’intonazione di quello che parla, cioè fare come ha fatto, mirabilmente, mi sembra, Gianolio, mi sembra una pratica che può essere utile per capire l’importanza, della punteggiatura come confine tra lingua scritta e lingua parlata, che è un confine che in italiano non è un confine che si attraversa spesso, io per esempio, ho cominciato a scrivere dei romanzi nel ’96, diciannove anni fa, e per i primi otto mesi io non ci avevo mai pensato, che la cosa che stavo provando a fare, scrivere un romanzo, aveva a che fare con la lingua che si parlava per strada, con la lingua che usavano i miei vicini di casa, i clienti della tabaccheria dove andavo io, mi ricordo un vecchio, io non lo vedevo in faccia, ho sentito solo la voce, che chiedeva un biglietto del tram, ed era una voce così bella, aveva un modo così bello, di chiedere un biglietto del tram, reso ancora più bello dal fatto che a Parma i tram non ci sono più da quarant’anni, che io credo che non me la dimenticherò mai, quella voce lì, però allora, nella mia testa, non era una voce che potevo usare in letteratura, perché in letteratura, i personaggi letterari non parlavan così, parlavano bene, corretto, non facevano errori: io mi ricordo, quei primi mesi in cui provavo a scrivere, mi ricordo esattamente la posizione in cui era il mio computer, abitavo a Parma, al numero 3 di via Caduti di Montelungo, tra largo Dispersi dell’Egeo, viale Dispersi e Morti in Russia, via Martiri di Cefalonia e via Anna Frank, avevo il computer su un tavolo che era contro un muro, e scrivevo guardando questo muro e la mia attenzione era tutta verso l’alto, il triangolo che percorrevo per ore, nella mia testa, era tra me, il computer e il cielo della letteratura dal quale cercavo di attingere quelle parole, quelle espressioni, quella sintassi leggera, straniante, nuova e antica contemporaneamente che avrebbe fatto di me un maestro di stile, e scrivevo in una lingua dalla quale non si capiva, non si doveva capire, che io ero di Parma, nel cielo della letteratura non c’era Parma, non c’eran confini comunali, provinciali, regionali, c’eran delle altre cose, c’era il premio Nobel, c’eran dei busti, c’era la legge Bacchelli e dietro, là in fondo, c’era la crusca, e i cruscanti, che si intravedevano appena ma restava il dubbio sulla loro natura a metà tra l’umano e il divino, delle cose così.

Quello che ho da dire sul caffè

mercoledì 23 Settembre 2015

Si sente?
Grazie.
Buongiorno.
Grazie dell’invito.
Quando ho detto a mia figlia che sarei venuto qui a Trieste a leggere un discorso di cinquanta minuti sul caffè che avrei dovuto scrivere io, mia figlia, che ha dieci anni, e che, quando scrivo di lei, la chiamo, convenzionalmente, La Battaglia, mi ha detto «Be’, te lo sai, cosa dire, sul caffè, ne bevi sempre».
E io ho pensato “È vero, ne bevo sempre”.
Una cosa simile l’avevo pensata qualche giorno prima quando una senatrice che legge i libri che scrivo mi ha telefonato mi ha chiesto se volevo andare a fare un discorso, al senato, sul cibo, che io, mi ricordo, per prima cosa avevo pensato “Ma come mai una senatrice legge i libri che scrivo io?”, e per seconda cosa “Be’, – avevo pensato, – io son cinquantadue anni, che mangio, lo saprò, cosa dire, sul cibo”.
Solo, che, adesso, il cibo, ci pensiamo poi dopo quando andiamo al senato, ammesso che ci andiamo, ma adesso che siamo qua, il caffè, cos’ho da dire, io sul caffè?
Ecco la prima risposta che mi viene su dalla pancia, è: «Niente.
Io, sul caffè, non ho da dir niente».

[Inizio del discorso Una scelta irrevocabile che leggo stasera a Trieste]

21 maggio – Ravenna

giovedì 21 Maggio 2015

Giovedì 21 maggio,
a Ravenna,
alle ore 18,
nella sala
D’Attorre
di Casa Melandri:
Coso,
discorso su Raffaello Baldini

14 marzo – Bologna

giovedì 13 Marzo 2014

Venerdì 14 marzo,
a Palazzo Re Enzo,
a Bologna,
in piazza del Nettuno,
dentro il Congresso Nazionale dell’Arci,
alle ore 10 e 30 circa,
leggo un discorso di 8 minuti
che si dovrebbe intitolare Magari mi sbaglio.

Un pezzettino

domenica 15 Settembre 2013

[Metto qui sotto un pezzettino del discorso che ho fatto ieri a Roma, alla festa di Left, come introduzione a un dibattito del quale però io ho poi sentito solo dieci minuti perché, quando hanno cominciato a parlare di come son stati bravi a Molfetta a non far l’alleanza con l’Udc, sono andato a letto]

 

E un’altra cosa che non mi convince è l’atteggiamento generale, di alcuni dei politici nuovi, perché questi politici nuovi, in sostanza, quello che dicono, mi sembra, è che loro son diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro,
allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, ma a parte quello, che pazienza, la cosa che mi convince meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, come: bravi, in sostanza, è che, necessariamente, questo fatto consiste nell’essere soddisfatti di sé e a me mi vien da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e questo, scrive Čechov, è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza. A me, ho studiato russo, e mi piacciono i russi, e capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e io, in una cosa del genere, mi ci trovo, e per uno che è soddisfatto di sé ho un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, ho un istintivo rispetto.

Un paio di anni fa un mio amico che lavora alla galleria d’arte moderna di Modena mi ha chiesto un testo per una mostra che facevano loro sul sacro e io ho cominciato un po’ a ragionare sul sacro e ho pensato che quello che manca, nelle nostre, come dire, vite, si fa fatica anche a pronunciarle, queste parole, La mia vita, per non parlare della morte, La mia morte, La morte di mio babbo, e anche La morte, da sola, ecco io ho pensato che quello che manca, forse, a parte le autorità, che son sparite, non ci sono più, c’è stato un momento che ci sono state, forse, oggi non c’è più nessuna autorità, a parte quello, che quello lo sappiamo, oggi, forse, quello che manca, mi è venuto da pensare, è il sacro, quel che abbiamo di sacro, ma non quello che c’è dentro la testa, che lì ciascuno ha la propria testa, che per uno è la patria, per uno è la famiglia, per uno è la legge, per uno è la libertà, per uno è Dio, quanto spazio prende Dio, nei miei discorsi, io non parlavo dei discorsi, parlavo delle vite, dei nostri momenti, quando il mondo, si fa fatica a pronunciarla, questa parola, Mondo, quando il mondo ti dà una botta, come se ti dicesse che esiste, come se ti tirasse fuori dai tuoi pensieri, come se ti tirasse la giacca, se tu avessi una giacca, e ti si manifestasse, nel senso che è lì, e c’era anche prima, e tu te l’eri scordato, e ti accorgi che suona, il rumore delle sfere, che delle volte si va a nascondere in cose minuscole, in momenti che non l’avresti mai detto, come quando stendi il bucato, e poi esci e torni a casa e senti odore di sapone di Marsiglia, o come quando hai un computer nuovo e stai caricando il programma di scrittura, o come quando sei in giro, in centro, con tua figlia, e ti volti a vedere se è dietro di te e la vedi e ti vien da pensare “Ma com’è bella”, o come quando firmi un contratto di allacciamento del gas, o quando vedi che gli alberi sono diversi e pensi L’autunno ha cambiato il giardino. Tutte le volte che ti svegli che hai fame. Quando senti qualcuno che sta attento a quello che dice. Quando ti rammendi le tasche della giacca. Quando si beve il primo vino dell’anno, hai vent’anni, e sembra un succo di frutta, sì e no cinque gradi. Quando stai per lasciare l’appartamento nel quale hai abitato tre anni, fai l’ultimo giro e trovi il mozzicone di candela che avevi usato il primo giorno che c’eri entrato, che non ti avevano ancora attaccato la corrente. Quando stai stendendo i panni e ti sorprendi a cantare. Quando sei in giro, al mattino, per il centro, e tutti i posti in cui devi andare sono ancora chiusi, e entri in un bar, e ti ci fermi mezz’ora, e ci trovi una folla di pensionati che gira intorno ai quotidiani come i bambini, con la bella stagione, intorno alle altalene dei giardini pubblici. Quanto tuo babbo ti chiama Ligera, hai tre anni, e tu pensi che voglia dire cravatta, e sei contento che tuo babbo scherza con te. Quando esci da lavorare, hai sedici anni, hai fatto otto ore in un prosciuttificio, e adesso vai a casa, e se così contento che ti strapperesti i capelli. Quando sei a letto, e sei stanco, e dici alla tua gatta, che ha quattordici anni, Vieni qui, e la gatta vien lì. Quando sei sulle spalle di tuo nonno, e fate una gara di corsa, e tu e tuo nonno vincete, e tu eri il più piccolo e non vincevi mai. Quando su per una salita, sull’appennino, è notte, hai ventisei anni, sei a piedi, per mano a una ragazza, e voltate l’angolo della strada e c’è un mare di lucciole, e non è normale, tutte queste lucciole, dev’esser successo qualcosa. Quando tagli il pane, certe volte. Quando sei da solo, e ti apparecchi. Quando parli e ti sembra di sentire la voce di tuo babbo, che è morto da undici anni.

Ecco. Quelle cose lì, secondo me, che sono le cose che mi parlano a me, sono tutte cose che mi parlano della mia debolezza e io, non ne so niente, ma ho l’impressione che un modo bello di cambiare le cose sarebbe bene che non partisse dalla presunzione che noi siamo bravi, ma dalla consapevolezza che siamo deboli, difettosi, insignificanti, e io ho l’impressione, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che la nostra debolezza, la nostra insignificanza, i nostri difetti, siano le cose più importanti che abbiamo e che abbiamo bisogno di quelle, non abbiamo bisogno di supereroi, e mi viene in mente una cosa che ha scritto lo scrittore americano Kurt Vonnegut che una volta ha scritto: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe», ha scritto Vonnegut, e io, probabilmente sono io, che me ne intendo poco, ma uno che le cose si propone di cambiarle dall’alto della sua infallibilità, o della sua superiorità morale, io, mi rendo conto che probabilmente sono io, ma io, se si parla per esempio di trasporto pubblico, a me piace la Russia, e se penso alla Russia che ho conosciuto io, mi viene in mente una volta che dovevo prendere un filobus, a San Pietroburgo, sulla prospettiva grande dell’isola Vasilevskij, sarà stato il 1996, pioveva, sono entrato sul filobus, era pieno, dappertutto, tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, se così si può dire, c’era un buco. Allora loro cos’hanno fatto, i russi, hanno fatto un buco anche sotto, sul pavimento. E l‘acqua passava. E il filobus andava. E questa per me era la Russia e, con tutti i suoi difetti, era bellissima, e c’è uno scrittore russo che si chiama Sergej Dovlatov che una volta ha scritto:

«Purtroppo non ci sono dati statistici certi su quali siano, in russo, le parole più o meno usate. Cioè tutti sanno, chiaramente, che la parola «merluzzo», per esempio, è significativamente più usata della parola, per dire, «sterletto», e la parola «vodka», diciamo, è più usuale di parole come «nettare» o «ambrosia». Ma di dati certi, ripeto, a questo proposito, non ne esistono. E è un peccato.
Se dati di questo genere esistessero, ci accorgeremmo che, per esempio, l’espressione «è un lavoro fatto coi piedi» è una delle espressioni più usate, in Unione Sovietica».

Ecco, a me un mondo fatto coi piedi così, non so perché, ma mi piace, mi sembra un mondo consonante con i nostri difetti, se così si può dire, e, se dovessi indicare, con tutta la mia insipienza, una regola, una direzione verso la quale muoversi, non saprei indicarla e ne prenderei a prestito una che ha individuato sempre Kurt Vonnegut, quando ha incontrato Joe. «Joe, – ha scritto Kurt Vonnegut, – un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!».

Birkenau

sabato 16 Marzo 2013

[Metto qua sotto il discorso letto stasera a Cracovia, è lungo e immagino ci siano diversi refusi]

Buongiorno, si sente?
Grazie.
Allora, io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, e di mestiere scrivo dei libri, e ne traduco, anche, dal russo, perché ho studiato russo, e queste cose le dico spesso quando devo cominciare un discorso, sono una premessa, come un piccolo scivolo che mi porta dentro il discorso, e le ho dette anche al cinema Kijow di Cracovia il 26 gennaio del 2009 che eravamo lì, con seicento studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori di Modena, come adesso, per una manifestazione che si chiamava Un treno per Auschwitz, come adesso, e era organizzata dalla fondazione Fossoli, come questa. Continua a leggere »