Ti ho svegliato?

lunedì 20 Novembre 2017

Il mattino dopo ero stato svegliato alle sei e quaranta da una telefonata del mio avvocato.
Che mi aveva chiesto «Ti ho svegliato?».
«No», gli avevo detto io, con un tono come per dire «No no no».
A me, devo dire, io non ero contrario, a raccontar delle balle.
Mi piaceva anche, un po’, raccontarne.
Farle girare, vedere che effetto facevano.
Ma questa, quando il mio avvocato, chiamandomi alle sei e quaranta del mattino, mi aveva chiesto se mi aveva svegliato, il fatto di dirgli di no, che non mi aveva svegliato, non era una balla premeditata, era venuta su dallo stomaco, e anche se avessi voluto sforzarmi, credo che non sarei riuscito, a dire la verità, a dire di sì, che mi aveva svegliato, a nessuno, non solo al mio avvocato, non so perché.
Forse perché mi sembrava sempre di dormire troppo, e mi vergognavo, che gli altri sapessero che dormivo, alle sei e quaranta del mattino.
Ma al mio avvocato, in particolare, che si chiamava Matteo Bernazzoli, mi sarebbe stato molto difficile, dire di sì, che mi aveva svegliato, quando mi aveva chiamato alle sei e quaranta del mattino perché una volta, tanto tempo prima, gli dovevo aver detto che io mi svegliavo tutte le mattine alle quattro e mezza per andare a correre.
Non so perché gli avevo detto una cosa del genere.
Che era vero, che andavo a correre tutte le mattine, solo non mi svegliavo alle quattro e mezza del mattino.
Forse mi sembrava di rendermi più interessante, dicendo che mi svegliavo alle quattro e mezza del mattino, non so.
So però che lui, che aveva meno di quarant’anni, e si vestiva come si vestiva l’avvocato Gianni Agnelli quarant’anni fa, quando lui era appena nato, con delle cravatte larghe con sotto i maglioni, con dei completi di sartoria con sotto gli anfibi, con l’orologio sul polsino della camicia e tutto, gli dispiaceva soltanto di non avere i capelli grigi ma era confortato dal fatto che tra qualche anno ce li avrebbe avuti anche lui, ecco lui, secondo me, doveva aver sentito che Gianni Agnelli, tutte le mattine, tra le cinque e le sei, telefonava ai suoi collaboratori, tra i quali Giampiero Boniperti, presidente della Juventus, e li intratteneva in amabili conversazioni, e secondo me a lui, al mio avvocato, Matteo Bernazzoli, non sembrava vero di avere un cliente così coglione da inventarsi la balla che lui si svegliava tutte le mattine alle quattro e mezza per andare a correre e da dargli quindi la possibilità di telefonare impunemente a degli orari come le sei e quaranta del mattino e, dopo aver chiesto educatamente «Ti ho svegliato?», sentirsi rispondere «No» con un tono come per dire «No no no».

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 57-59]

Così un giovanotto

domenica 19 Novembre 2017

“Buongiorno, compagno dottore”.
“Chi è lei?”, avevo chiesto io.
“Egoryč, – si era presentato l’uomo, – sono il guardiano, qui. L’aspettavamo, era un po’ che l’aspettavamo…”
E aveva afferrato la valigia, se l’era gettata sulle spalle e si era avviato. Io mi ero messo a zoppicargli dietro, cercando, senza successo, di infilarmi una mano in tasca per estrarne il portafoglio.
L’uomo, in sostanza, ha bisogno di molto poco. E prima di tutto ha bisogno del fuoco. Muovendomi verso quell’angolo di mondo che era Mur’e io, mi ricordo, ancora a Mosca, mi ero ripromesso di darmi un po’ di importanza. Il mio aspetto giovanile mi aveva avvelenato l’esistenza nei primi passi della mia carriera. A tutti mi toccava
presentarmi come: “Il dottor tal dei tali”. E tutti, senza eccezioni, alzavano un sopracciglio e chiedevano:
“Davvero? Pensavo che fosse ancora studente”.
“No, ho finito”, rispondevo io, cupo, e pensavo “Dovrei mettermi gli occhiali, ecco cosa dovrei fare”. Ma di mettermi gli occhiali non avevo motivi, i miei occhi erano in perfetta salute, e la loro chiarezza non era ancora stata guastata delle esperienze della vita. Non avendo la possibilità di difendermi dai sempre presenti sorrisi indulgenti e carezzevoli con gli occhiali, mi ero sforzato di elaborare un comportamento tale da incutere rispetto. Cercavo di parlare con misura e in modo autorevole, di evitare, per quanto possibile, i movimenti bruschi, di non correre come corrono i ventitreenni che hanno appena finito l’università, ma di camminare. Tutto ciò, lo capisco adesso, dopo molti anni, mi riusciva malissimo.
In quel momento avevo violato questo codice di comportamento non scritto. Mi ero seduto, tutto raggomitolato, con i soli calzini, e non mi ero seduto da qualche parte nel mio studio, mi ero seduto in cucina, e, come un adoratore del fuoco, mi allungavo, ispirato e appassionato, verso i ceppi di betulla che bruciavano nella stufa. Alla mia sinistra c’era una piccola botte capovolta, e su di lei c’erano le mie scarpe, vicino a loro un gallo spennato e nudo, dal collo insanguinato, vicino al gallo il mucchio delle sue penne. Il fatto è che, ancora pietrificato dal freddo, ero riuscito a compiere una serie di azioni che la vita stessa aveva richiesto. A Aksin’ja, col suo naso a punta, la moglie di Egoryč, era stato affidato, da me, l’incarico di essere la mia cuoca. La conseguenza era stata che il gallo, per opera sua, aveva perso la vita. Avrei dovuto mangiarmelo. Avevo conosciuto tutti. L’infermiere si chiamava Dem’jan Lukič, le ostetriche Pelageja Ivanovna e Anna Nikolaevna. Ero riuscito a fare un giro dell’ospedale e, con assoluta evidenza, mi ero convinto che c’era un ricchissimo strumentario. E, con la stessa assoluta evidenza, avevo dovuto confessare (a me stesso, naturalmente) che l’uso di molti di quegli splendidi strumenti nuovissimi mi era del tutto sconosciuto. Non solo non li avevo mai tenuti in mano, non li avevo nemmeno, lo confesso apertamente, mai visti.
“Mmmh” avevo muggito con aria molto significativa “avete proprio una strumentazione notevolissima. Mmh”.
“Sì ve’”, aveva detto bonariamente Dem’jan Lukič “per via degli sforzi del suo predecessore, Leopol’d Leopol’dovič. Operava da mattina a sera”.
Lì mi ero coperto di sudore freddo e avevo guardato con angoscia gli splendenti armadietti a specchio.
Poi avevamo fatto il giro delle corsie vuote e mi ero reso conto che potevano tranquillamente ospitare quaranta persone.
“Leopol’d Leopol’dovič delle volte ne aveva anche cinquanta” mi aveva confortato Dem’jan Lukič, e Anna Nikolaevna, con una gran testa di capelli grigi, non so a che proposito aveva detto:
“Lei, dottore, sembra così un giovanotto, così un giovanotto… è proprio incredibile. Sembra uno studente”.
“Accidenti”, avevo pensato io. “Come se si erano siano messi d’accordo, parola d’onore”.
E avevo brontolato tra i denti:
“Mmh… no, io… sì, sembro un giovanotto…

[Michail Bulgakov, Memorie di un giovane medico, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 18-21]

Memorie di un giovane medico 2

domenica 15 Ottobre 2017

[continua]

Questi racconti, ambientati e maturati nel 1917 (Bulgakov, medico anche lui, ha vissuto delle esperienze simili a quelle raccontate dall’io narrante delle Memorie di un giovane di medico), e pubblicati per la prima volta nel 1925 e nel 1926 su due riviste sovietiche, Medicinskij rabotnik (Il medico) e Krasnaja panorama (Panorama rosso, o Panorama bello – in russo rosso vuol dire anche bello), questi racconti, dicevo, a parte l’ultimo, che parla di quel che è successo a Kiev nel 1919, parlano pochissimo di rivoluzione, e se ci si trova una parola che significa anche rivoluzione (povorot, in russo), qui è usata nel senso del procedimento medico che serve per fare uscire un nascituro che è messo male nella pancia della mamma, e credo si traduca “rivolgimento”.
Del resto il protagonista di Cuore di cane (uscito anche lui nel 1925) Filip Filipovič Preobraženskij, è uno che ha il coraggio di dire, nella Russia degli anni venti: «Ja ne ljublju proletariat» («A me non piace il proletariato»), e il suo autore, Michail Afan’asevič Bulgakov, è uno che, nel 1930, scriverà a Stalin: «Passando in rassegna i miei ritagli di giornale, ho constatato di aver ricevuto dalla stampa sovietica, nei dieci anni della mia attività letteraria, 301 recensioni, di cui 3 favorevoli e 298 ostili e ingiuriose».
Ma, a parte il coraggio, che non credo sia necessariamente una qualità letteraria, si trova qui dentro un momento che, appena prima di cominciare a darsi da fare per un parto complicato, una “presentazione anomala”, «I volti dell’infermiere e delle ostetriche erano diventati seri, come ispirati», e, mi sbaglierò, ma a me son sembrati come dei musicisti che stanno per cominciare a suonare, e io credo che questa cosa, di diventare seri, come ispirati, sia successa, nei cento anni che sono passati da quando questa storia è incominciata, a innumerevoli lettori delle Memorie di un giovane medico di Michail Bulgakov intanto che leggevano questo libro stupefacente che si intitola Le memorie di un giovane medico e che è stato scritto da Michail Bulgakov.

P. N.
Casalecchio di Reno, ottobre 2017

[Seconda parte dell’introduzione a Michail Bulgakov, Memorie di un giovane medico, esce per Marcos y Marcos il 16 novembre]

Memorie di un giovane medico

sabato 14 Ottobre 2017

Qualche anno fa, a Bologna, ho tenuto un corso che si è chiamato Scuola media inferiore di letteratura popolare, e aveva un sottotitolo che era: “come scrivere un romanzo che vende moltissimo”.
Il sottotitolo l’avevo messo per via di un libro che avevo letto qualche anno prima, Il quinto angolo, di Izrail’ Metter, il cui protagonista insegnava matematica senza saperla e diceva che, se vuoi imparare a fare una cosa, il modo migliore è insegnarla.
In quel corso avevamo parlato delle descrizioni, e a me era venuta in mente la moglie del Maestro e Margherita, non Margherita, quella di prima, la prima moglie, che Bulgakov risolve in tre parole, in russo, che diventano cinque in italiano: «un eterno vestitino a righe».
Che è una liquidazione talmente potente che io me la ricordo a memoria fin dalla prima volta che ho letto quel libro lì, trentacinque anni fa, circa.
Qualche anno prima, avevo tenuto un corso che si chiamava Scuola elementare di letteratura russa, e avevamo letto L’asciugamano col gallo, che è il primo dei racconti che trovate in questa raccolta (che è una specie di romanzo involontario, come raccolta, perché i racconti sono tutti con lo stesso io narrante e, più o meno, hanno tutti la stessa ambientazione).
Come forse vedrete, qui Bulgakov racconta di un medico che, nel 1917, viene mandato in un angolo sperduto della Russia nord occidentale, dove è l’unico medico nel giro di diversi chilometri e deve far tutto lui, e la maggior parte delle cose che deve fare non le ha mai fatte, e non sa come si fanno, e le fa in un modo, cioè si muove in un modo, il contrario di quelli che si muovono con nonchalance, cioè si muove con chalance, se così si può dire, che, tradotto in italiano, nonchalance dovrebbe essere disinvoltura, chalance involtura, si muove con involtura, praticamente, questo protagonista.
E la sua urgenza, la sua disperazione, la sua vergogna, e la comicità, anche, della sua condizione, lo costringono a vedere le cose con una potenza, che un banale vestito a righe diventa un eterno vestitino a righe e resta impresso per sempre nella memoria del lettore.
O, meglio, il vestitino a righe nel Maestro e Margherita, invece qui, per me, la parola «Canfora», che mi sono trovato a pronunciare più volte ad alta voce per vedere che effetto faceva, o un asciugamano con un gallo, o le scatole di caramelle su cui si disegnano bambine così, o le paginette lucide del Döderlein, Chirurgia ostetrica, o una bambina imbacuccata, sembrava un comodino, o una borsa con dentro la caffeina, e la canfora, e la morfina, e l’adrenalina, e le pinzette emostatiche, e il materiale sterile, la siringa, la sonda, la pistola, le sigarette, i fiammiferi, l’orologio, lo stetoscopio, o delle ciocche di capelli che erano avvolte intorno alle dita, una susina Reine Claude di grosse dimensioni, una palla di colore giallo della grandezza di una piccola mela e molte altre cose ancora.

[segue]

[Prima parte dell’introduzione a Michail Bulgakov, Memorie di un giovane medico, esce per Marcos y Marcos il 16 novembre]

Normale

sabato 24 Giugno 2017

Un giorno, in centro, mi ero perso, vedo una donna, mi avvicino, Scusi, dico, le posso chieder un’informazione? e lei dice Dipende. Dipende? Come dipende? È un’informazione, mi son perso, ho bisogno di un’informazione. Dipende.
Ecco, a me, queste cose, mi allontano. Mi metto a correre e vado così forte che non mi vedon più. Il verde, il grigio, mi piacciono, ma preferisco il giallo, e la paura a me mi fa paura.
Poi ci son stato ancora, a lavorarci, e una delle prime volte che ci andavo, sopra la scale della metropolitana, mi viene incontro uno, mi guarda e dice Che Dio ti maledica.
Lì quello lo capisco un po’ di più, non me la sono presa. Lì quella lì, secondo me, è normale.

[Sei città, illustrazioni di Timofej Kostin, esce il 29 giugno]

Prefazione

mercoledì 21 Giugno 2017

In ogni libro la prefazione è la prima e al tempo stesso l’ultima cosa; serve o per spiegare lo scopo dell’opera, o per giustificarsi e rispondere alle critiche. Ma di solito ai lettori non interessano né gli scopi morali, né gli attacchi giornalistici, e perciò essi non leggono le prefazioni. Ed è un peccato, che sia così, specialmente da noi. Il nostro pubblico è ancora così giovane e ingenuo che non capisce le fiabe se alla fine non vi trova la predica. Non riconosce lo scherzo, non sente l’ironia; è, semplicemente, male educato. Ancora non sa, che in una società onesta e in un libro onesto l’ingiuria manifesta non può trovar posto, che l’erudizione contemporanea ha scoperto un’arma più affilata, quasi invisibile e nondimeno mortale, la quale, sotto le spoglie dell’adulazione, porta un colpo sicuro e non parabile.
Il nostro pubblico è simile a un provinciale che ascoltando la conversazione tra due diplomatici che appartengono a due corti nemiche si convincesse che entrambi ingannano il proprio governo in favore di una reciproca, tenerissima amicizia.
Questo libro ha sperimentato su di sé ancora recentemente la disgraziata fiducia di alcuni lettori, e perfino riviste, nel significato letterale delle parole. Altri si sono terribilmente offesi, e non per scherzo, di esser serviti da modello per un uomo così immorale come l’Eroe dei nostri tempi; altri hanno notato, con molta perspicacia, che l’autore aveva dipinto il proprio ritratto e i ritratti dei propri conoscenti…
Vecchio e miserabile trucco. Ma, evidentemente, la Rus’ è fatta in modo che tutto in essa si rinnova, tranne le assurdità di questo genere. La più fantastica tra le fiabe fantastiche difficilmente da noi sfugge all’accusa di attentare alla dignità della persona.
Un eroe dei nostri tempi, signori miei cari, è proprio un ritratto, ma non di una persona: è un ritratto dei vizi di tutta la nostra generazione nel pieno del loro sviluppo. Mi direte ancora che un uomo non può essere così malvagio, e io vi dirò: se avete creduto alla possibilità dell’esistenza di tutti gli scellerati tragici e romantici, perché non credete alla realtà di Pečorin? Se avete ammirato invenzioni molto più orribili e mostruose, perché questo carattere, nemmeno come invenzione, incontra la vostra misericordia? Non sarà forse perché c’è in lui più verità di quanto vi sareste augurati? Dite che la morale da tutto ciò non ne guadagna?
Scusate. Agli uomini han dato fin troppi dolciumi; il loro stomaco si è guastato: servono medicine amare, verità irritanti. Non pensiate, tuttavia, dopo quel che precede, che l’autore di questo libro abbia mai cullato il fiero sogno di farsi correttore dei vizi dell’umanità. Dio lo salvi da questa ingenuità! Si è semplicemente divertito a dipingere l’uomo contemporaneo così come lo comprende e, per sua e per vostra sfortuna, troppo spesso l’ha incontrato. Sarà allora così, che la malattia è stata individuata, ma come curarla lo sa soltanto Dio.

Michail Lermontov

[Esce il 29 giugno]

Una nota biografica

mercoledì 17 Maggio 2017

Andrea Cardoni è di Roma ed è nato nel 1981. Ha studiato antropologia e si è occupato di certe cose in Tanzania, ha scritto e fatto video su altre cose in Italia e adesso ha a che fare con un’associazione di volontariato. Ha partecipato alla scrittura del repertorio dei matti della città di Roma e ha la tessera numero 29 dell’associazione culturale To soréla entertainment.

[Andrea Cardoni, Tutti romani tutti romanisti. Il romanzo di Cesar Gomez, Milano, Marcos y Marcos 2017]

Fino all’età di diciott’anni

mercoledì 22 Marzo 2017

livi la terra si muove

Le donne, fino all’età di diciott’anni, io ero convinto che si potesse farne a meno.

[Roberto Livi, La terra si muove, Milano, Marcos y Marcos 2017, p, 115]

Il destino

lunedì 20 Marzo 2017

livi la terra si muove

Fiorenzo ha la passione del canto. La sera sgancia il freno a mano alla sua Uno, prende una strada qualsiasi e comincia a cantare. Canta fino allo sfinimento anche duecento chilometri di fila. In macchina ha la raccolta completa dei cd con tutte le basi di tutte le canzoni degli Stadio.

Fiorenzo a suo modo è credente. Una volta mi ha detto:
– Pensa, io che da piccolo ho sempre avuto la passione per gli Stadio, da grande mi è venuta la voce identica al cantante degli Stadio. Te pensa il destino. Guarda che delle volte la vita è una cosa incredibile. Tutti dicono che la vita è un caso, sembra che non ci sia niente di niente, io dico che qualcosa c’è.

[Roberto Livi, La terra si muove, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 43-44]

Il rabdomante

venerdì 10 Marzo 2017

Brian Friel, Tutto in ordine e al suo posto

Il rabdomante era un uomo alto, tendente alla pinguedine, e vestito di nero, come Nelly e il parroco. Portava in testa un cappello floscio, nero e bisunto, che pendeva un po’ da un lato, e sotto il braccio teneva un pacchetto sottile, avvolto in una carta di giornale. La prima impressione fu: Che persona distinta.
Ma quando comparve alla luce dei fanali di un’auto, si videro in lui segni di deterioramento: occhi scoloriti e sfuggenti, dita ingiallite dalla nicotina, calzoni male assortiti con la giacca, scarpe screpolate sulla punta, guance segnate da un sorriso sempre pronto. Parlava con l’accento cadenzato e melodioso della costa dell’Ovest.
McElwee e l’apprendista di McLaughlin, muovendosi intorno al rabdomante come due accoliti smaniosi, lo condussero all’auto di padre Curran. Il rabdomante aprì la portiera, si tolse il cappello e fece un inchino a Nelly e al parroco. Aveva un riporto di capelli tirato accuratamente da una parte per coprire la calvizie. «Io sono il rabdomante» disse con modesta semplicità.
Padre Curran si piegò dalla parte di Nelly per guardarlo più da vicino.
«Come vi chiamate? Chi è il parroco del vostro paese?»
Il rabdomante ignorò le domande e si rivolse a Nelly: «Avrò bisogno di una cosa che apparteneva a vostro marito, qualcosa che sia stato a contatto con la sua persona: una cravatta, un fazzoletto, un…»

[Brian Friel, Tutto in ordine e al suo posto, traduzione e cura di Daniele Benati, Milano, Marcos y Marcos 2017, p. 21]