Un sacco di cose da fare

sabato 10 Novembre 2018

L’interesse per il calcio, la necessità di seguire le partite, di vederle, o, comunque, di sapere come erano andate a finire, è cominciato, per me, quando avevo 6 anni, e continua ancora adesso che non ho 55 ma non è stato costante, nel tempo. Ci son stati degli anni che mi sembrava così interessante, la vita che facevo, che era come se per il calcio non avessi tempo.
È stato negli anni dal 1985 al 2003, più meno, che sono gli anni del mio apprendistato, se così si può dire: nel 1985, a 22 anni, sono andato a lavorare in Algeria, sulle montagne del piccolo Atlante, e lì, come in tutti i paesi mussulmani, il giorno di festa non era la domenica, era il venerdì, e io la domenica avevo altro per la testa che i risultati delle partite di calcio del campionato italiano: bisognava lavorare, era il primo lavoro da grande che facevo nella mia vita, ed ero molto interessato a capire se ero capace di farlo oppure no, e avevo molta paura che no, non sarei stato capace, ed era una paura che mi teneva sveglio e mi faceva star bene.
Due anni e mezzo dopo, nel 1988, ho dato le dimissioni e mi sono iscritto all’università, ho cominciato a studiare lingua e letteratura russa, e continuo ancora adesso, e quei primi anni l’interesse per la lingua e la letteratura russa è stato così esclusivo che anche lì non c’era posto, per dei rivali. Mi ricordo, per esempio, i mondiali di calcio del 1990, quelli in Italia, io intanto che l’Italia giocava le partite del girone eliminatorio, che faceva dei gran gol Schillaci, io di quei gol non ne ho visto neanche uno perché ero al Festival del nuovo cinema di Pesaro a vedere dei film la maggior parte dei quali erano muti e sovietici, e, a distanza di quasi trent’anni, credo di aver fatto bene perché sono dei film meravigliosi, primo tra tutti il tanto vituperato La Corazzata Potëmkin, di Ejsenštejn, che molti, in Italia, a causa del ragionier Ugo Fantozzi, pensano sia un film noiosissimo che dura ore e ore e invece è un film meraviglioso che dura, a misurarli, sessantaquattro minuti.
Poi, dopo che mi sono laureato, che ho cominciato a scrivere e che mi sono trasferito a Bologna e che è nata anche mia figlia, dopo che son diventato uno degli innumerevoli padri di famiglia che popolano il globo terracqueo, a un certo momento è stato come se avessi pensato che, dopotutto, a più di quarant’anni, ero diventato quasi una persona normale, e una persona normale non doveva per forza sempre occuparsi di cose importanti o importantissime, poteva permettersi anche, ogni tanto, di guardare una partita di calcio, o quasi; perché all’epoca, a Bologna, io non avevo la televisione, quindi le partite di calcio non le guardavo, le sentivo per radio, e la partita di cui voglio parlare oggi è una partita del maggio del 2005 che era un periodo che a casa mia, nel centro di Bologna, avevo ospiti una coppia di amici russi a cui ero molto affezionato ma che erano un po’ impegnativi, da ospitare in casa.
Loro, per esempio, che avevano vissuto tutta la vita in una città che si è chiamata con tre nomi diversi, San Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado e ancora San Pietroburgo, e avevano conosciuto, in quella città, molti di quelli che si erano occupati di letteratura, e con alcuni di questi non avevano un rapporto molto amichevole, e di uno di questi, in particolare, uno scrittore russo che si chiama Sergej Dovlatov dicevano che era, cito: «Una merda», loro, quando ho saputo che sarebbero venuti ospiti in casa mia, io, che avevo all’epoca una ventina di libri di e su Sergej Dovlatov, che è uno scrittore che mi piaceva e mi piace ancora moltissimo, io mi ricordo che avevo pensato che non potevo far loro lo sgarbo di fargli trovare nella stanza dove dormivano dei libri di Sergej Dovlatov che loro consideravano, cito ancora: «Una merda», e avevo trovato un nascondiglio temporaneo per quella ventina di libri che ancora oggi ho qui davanti a me nella mia libreria.
Ma cosa c’entra il calcio?, direte forse voi.
Ci arrivo.
Il caso ha voluto che i miei due amici russi fossero ancora ospiti a casa mia il 25 maggio del 2005, che è il giorno in cui c’è stata la finale della Champions League tra Milan e Liverpool. Io, da giovane, prima di ridurmi come adesso, a tener solo per il Parma, tenevo anche per il Milan, e quel 25 maggio del 2005, se non avessi avuto a casa mia quei due letterati russi, probabilmente sarei andato a casa di un mio amico italiano non letterato a vedere la partita con la sua televisione, ma allora, sentendomi responsabile del soggiorno bolognese dei miei cari amici russi, ero rimasto a casa con loro, e, durante una cena e un dopocena nel corso dei quali amabilmente conversavamo di cinema e letteratura russi e sovietici, io, a basso volume, avevo tenuto accesa la radio che dava la radiocronaca della finale di Champions League, che era cominciata benissimo, per noi che, un po’, tenevamo per il Milan: al primo minuto del primo tempo aveva segnato Maldini, al trentottesimo del primo tempo aveva raddoppiato Crespo, al quarantaquattresimo del primo tempo aveva triplicato Crespo. Tre a zero. Con due gol di Crespo che aveva giocato anche nel Parma. Io stavo benissimo. Mi sentivo un po’ Fantozzi, a sentir la partita senza farmi accorgermene, ma stavo benissimo lo stesso. Poi è cominciato il secondo tempo. Gerrard, Šmicer, Alonso. Tre a tre. Tre gol in sei minuti. E poi niente. Fino alla fine. Supplementari. E niente neanche nei supplementari. Rigori. Ecco.
Sentire perdere il Milan ai rigori la finale di coppa dei campioni, dopo essere stato in vantaggio tre a zero, e facendo finta di continuare a essere di ottimo umore, a distanza di tredici anni lo posso confessare, non è stato bello, e credo di poter confessare anche un’altra cosa, che io, i gol di quella partita lì, quello di Maldini, i due di Crespo, quello di Gerrard, di Šmicer e di Alonso e i nove rigori che hanno tirato alla fine, tre gol e un errore del Liverpool, due gol e tre errori del Milan, io non li ho mai visti e credo che non li vedrò mai in vita mai.
Anche per scrivere questa serie sulle dieci partite più interessanti tra tutte quelle che ho visto (o sentito) nella mia vita, io di solito, per le partite delle quali ho parlato finora, andavo a rivedere la fasi salienti, come si dice, su youtube, per questa, no, non so come mai. Ho tanti di quei libri da leggere, in questo periodo. Sarà forse per quello. Ho un sacco di cose da fare. Sono così impegnato.

[uscito ieri sulla Verità]

Non sto sindacare ciò che ha visto l’arbitro

sabato 3 Novembre 2018

Una delle partite di calcio più strane degli ultimi anni è stata una partita che si è giocata a Madrid l’11 aprile del 2018, poco più di sei mesi fa; era il ritorno dei quarti di finale di Champions League e giocavano il Real Madrid, padrone di casa, e la Juventus. All’andata, a Torino, 8 giorni prima, la Juventus aveva perso 3 a 0. Una sconfitta umiliante, che aveva, in un certo senso, replicato l’umiliante sconfitta del giugno precedente, a Cardiff, in Galles, nella finale della Champions League del 2016/2017, quando la Juventus, che in Italia molti davano per favorita, aveva perso 4 a 1.
Quella sera dell’11 aprile del 2018, invece, la Juventus era tutt’altro che favorita, anche perché il giorno prima, il 10 aprile del 2018, a Roma, si era giocata Roma – Barcellona, altro quarto di finale di Champions League, e la Roma, che all’andata aveva perso 4 a 1, aveva vinto, in casa, 3 a 0 e aveva passato il turno grazie alla regola dei gol in trasferta che valgono doppio. Chi avrebbe scommesso su due vittorie così clamorose nel giro di due giorni? Nessuno. La Juventus, che, per passare il turno, avrebbe dovuto vincere 4 a 1, oppure 3 a 0 e sperare poi nei calci di rigore, aveva contro non solo il Real Madrid, anche la legge dei grandi numeri.
Sembrava un’impesa impossibile; invece, dopo due minuti, la Juventus era già in vantaggio 1 a 0, gol di testa di Mandzukic; dopo 37 minuti era già in vantaggio 2 a 0, gol di testa sempre di Mandukic; dopo 60 minuti era in vantaggio 3 a 0, gol di Matuidi grazie una ridicola mancata presa del portiere del Real Madrid Navas. Il Real Madrid, c’è da dire, era stato abbastanza sfortunato, aveva preso una traversa e aveva avuto diverse occasioni per fare il gol che gli serviva per passare il turno, ma quel gol non l’aveva fatto e la Juventus, se fosse arrivata alla fine dei tempi regolamentari sul 3 a 0, avrebbe cominciato i supplementari con l’entusiasmo di una squadra che è a un passo da un’impresa memorabile. Solo che lì, a un passo da un’impresa memorabile, a dieci secondi dalla fine del recupero, era successa una cosa stranissima: c’era stato un cross nell’area della Juventus, Cristiano Ronaldo, di testa, aveva passato la palla al suo compagno Vazquez che era davanti al portiere da solo e stava per tirare quando era stato tamponato dal difensore marocchino della Juventus Medhi Benatia, e il giovane, promettente arbitro inglese Michael Olivier aveva concesso il calcio di rigore.
C’era stata qualche protesta, soprattutto del capitano della Juventus, il portiere, che si chiamava Buffon, e erano state delle proteste tali che avevano costretto il giovane, promettente arbitro inglese Michael Olivier a espellere l’anziano portiere italiano. Portiere che, dopo la partita, aveva detto: «Non sto sindacare ciò che ha visto l’arbitro. Era sicuramente un’azione dubbia. E un’azione dubbia al 93′, dopo che all’andata non ci è stato dato un rigore sacrosanto al 95′, non puoi avere il cinismo per distruggere una squadra che ha messo tutto in campo. Ti ergi a protagonista per un tuo vezzo o perché non hai la personalità adatta. Un essere umano non può fischiare un’uscita di scena di una squadra dopo un episodio stradubbio: al posto del cuore hai un bidone della spazzatura. Se non hai la personalità per stare da protagonista in campo stai in tribuna con tua moglie e i tuoi figli e ti godi lo spettacolo, bevi la Sprite e mangi le patatine». Parole che erano poi costate, all’anziano portiere italiano, tre giornate di squalifica. Per la cronaca, e per quei pochissimi lettori che non lo dovessero sapere, Ronaldo aveva poi tirato il rigore e aveva fatto gol. Real Madrid in semifinale (avrebbe poi vinto anche quella Champions League) e Juventus ancora a casa. Proprio una sfortuna. Ma la cosa che fa di quella partita una partita memorabile, al di là delle circostanze, dell’essere quasi arrivati a fare un’impresa, del giovane arbitro che non era stato in tribuna ma era sceso in campo e aveva dato il rigore, dell’uscita di scena ingloriosa dell’anziano portiere, al di là di tutto questo, quella partita è memorabile anche per il piacere con cui i non juventini se la ricordano.
È un piacere che ha a che fare, come abbiamo detto la settimana scorsa, con la parola russa zloradstvovat’, che significa «godere delle disgrazie altrui», un po’ come la parola tedesca Schadenfreude che, secondo una psicologa citata da Wikipedia, che si chiama Grazia Aloi, è un sentimento che dipende dalla «considerazione di scarsissimo valore di Sé che si riflette nella consolazione (molto spesso errata) che anche il sé degli altri sia scarso e non degno». Ecco, si vede che io penso di valere molto poco, perché questa Shadenfreude non la provo solo nel calcio, ma anche in altri ambiti. Qualche anno fa, per esempio, ho saputo che un celebre storico della Russia, Orlando Figes, che ha pubblicato dei libri molto noti, come La danza di Nataša, tradotto in molte lingue, era stato accusato di mettere delle recensioni positive, su Amazon, ai propri libri, e delle recensioni negative ai libri dei propri colleghi, usando uno pseudonimo molto simile al suo nome. Aveva risposto, offeso, dicendo tra l’altro che se avesse fatto una cosa del genere non sarebbe stato così stupido da scegliere uno pseudonimo così riconducibile a lui. Poi uno di quei commenti che comparivano sotto i libri delle colleghe di Figes era stato un po’ offensivo e quella collega aveva sporto denuncia contro ignoti, e c’era stata un’indagine della polizia postale che aveva scoperto che il computer da cui erano partiti quei commenti malevoli era il computer di Figes. Al che Figes aveva detto che si scusava tanto e che aveva scoperto che era stata sua moglie. E il mattino dopo aveva cambiato versione aveva detto «No, scusatemi, sono stato io». Ecco io, forse sono cattivo, e ho una pessima considerazione di me, ma questa storia di Orlando Figes io la trovo meravigliosa: mi ricordo come mi ha messo di buon umore, la prima volta che l’ho sentita, e raccontarla, non so perché, mi piace molto. Ci provo proprio gusto. Un po’ come a raccontare certe sconfitte della Juventus, per esempio. Perché quel che ha detto il tennista Andre Agassi dopo che aveva vinto il primo Wimbledon della sua vita («Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente» la traduzione è di Giuliana Lupi), questa cosa che dice Agassi, che una sconfitta lascia un segno che dura molto più a lungo del segno lasciato dalla vittoria, io credo non valga solo per le proprie sconfitte, ma anche per quelle degli altri.

[Uscito ieri sulla Verità]

злорадствовать

sabato 27 Ottobre 2018

Anche se, nei pezzi che sto pubblicando in questo periodo, parlo di calcio, io, devo confessare, sono un appassionato di letteratura russa, sono uno che crede che la letteratura russa sia la letteratura più bella del mondo, e la cosa, secondo me, che la rende la più bella del mondo, è il fatto che fa male.
Io mi ricordo quando, avrò avuto quattordici o anni, ho cominciato a leggere Delitto e castigo, di Dostoevskij, e sono arrivato al punto in cui Raskol’nikov, il protagonista, si chiede «Ma io, sono uno come Napoleone, o sono uno che non vale niente, come un insetto?», e per dimostrarsi che lui non è come un insetto, ma è come Napoleone, uccide due donne, con una scure; ecco, io, allora, non ho ucciso nessuno, ma mi sono chiesto anch’io, come Raskol’nikov, «Ma io, sono uno come Napoleone, o sono uno che non vale niente, come un insetto?», e questa domanda, la cosa che me la rendeva cara, la cosa che mi piaceva, di questa domanda, era il fatto che mi faceva star male; ho cominciato allora, che avevo 14 anni, e non ho ancora smesso, di star male, e la letteratura russa, la cosa che la rende diversa da tutte le altre letterature, per conto mio, è il fatto che mi ha fatto star peggio della letteratura americana, di quella italiana, di quella spagnola, di quella inglese e di quella sudamericana messe insieme.
Il calcio, una delle cose che mi piace, anche del calcio, è il fatto che mi fa star male. In questo son fortunato perché tengo per una squadra che, al momento, non lotta per vincere il campionato o una coppa europea, lotta per non retrocedere, il Parma, e quest’anno, quando sono andato a vedere per esempio Spal Parma, seconda partita del Parma in questo campionato, io quando sono entrati in campo quasi quasi speravo che non giocassero perché avevo una gran paura che il Parma perdesse e facevo bene, a avere paura, perché il Parma, effettivamente, quella partita, l’ha persa, e io son stato abbastanza male, e è stata una partita bruttissima, un ultrà del Parma mi ha anche versato in testa della birra, anzi, diciamola bene: risalendo dal bagno su per i ripidi gradini dello stadio Renato Dall’Ara, ho preso contro, con la testa, a un bicchiere di birra che un ultrà del Parma stava tenendo in mano e me la sono versata un po’ in testa da solo, la birra, è stato un pomeriggio tristissimo e per questo memorabile, non come quando ho cominciato a leggere Delitto e castigo, ma su quella strada lì, devo dire.
Quindi, secondo me, una cosa bella del calcio, come della letteratura, è il malessere che provoca, e il calcio, tra l’altro, secondo me ha anche molto a che vedere con una parola russa che comincia con il prefisso zlo-, che significa “male”, e questa parola è “zloradstvovat’”, che significa, più o meno, “gioire del male altrui”.
Ecco: la partita di cui vorrei parlare questa settimana è un quarto di finale di Champions league che si è giocato poco più di sei mesi fa, il tre aprile di quest’anno, eppure, a vederne i riflessi filmati, come si dice, sembra una partita di un’altra epoca perché nella Juventus c’era un attaccante argentino, Higuain, che adesso sembra un sacco di tempo, che non gioca più nella Juventus, e c’era un portiere, nella Juventus, Gigi Buffon, che adesso è emigrato in Francia e sembra un sacco di tempo, che non gioca più nel campionato italiano. E nel Real Madrid c’era un giocatore, Cristiano Ronaldo, che adesso sembra un sacco di tempo, che non gioca più nel Real Madrid, e è stato un giocatore che in quella partita è stato abbastanza decisivo perché dopo tre minuti aveva già fatto gol per il Real Madrid. Una sfortuna, prendere un gol subito dopo tre minuti in una partita così importante, e con una difesa che di solito era così forte si comportava così bene.
Che poi, a guardare i riflessi filmati, la Juventus avrebbe potuto pareggiare più di una volta invece, accidenti, la difesa del Real Madrid, quella sera, si vede che erano proprio in una forma straordinaria a cominciar dal portiere, Keilor Navas, che ha fatto una parata d’istinto su un tiro da pochi metri di Higuain che tutti i tifosi della Juventus avevano già urlato al gol, invece, accidenti, non era gol, era parata.
Una sfortuna, proprio. C’è da dire che, il Real Madrid, quella partita, ha preso una traversa piena e ha sbagliato qualche gol di pochi centimetri, sono stati un po’ sfortunati anche loro, è stata proprio una partita sfortunata, sia da una parte che dall’altra, una di quelle partite che ce n’è una ogni cento anni, così.
Per esempio Paulo Dybala, un giovane attaccante della Juventus, lui, Paulo Dybala, eravamo ancora nel primo tempo, era in area di rigore, sta per avvicinarsi pericolosamente alla porta, c’è stato un contrasto con un avversario, d’un tratto Dybala è caduto per terra che si contorceva che chissà che male gli avevano fatto, viene in mente a guardare la scena.
“Rigore!”, avran pensato i tifosi della Juventus che gremivano in ogni ordine di posti lo stadio della Juventus che è uno stadio moderno, inaugurato nel 2011, ma che ha già cambiato nome, per un po’ si è chiamato Juventus stadium, adesso si chiama Allianz stadium, benché in Italia non ci sia nessuna squadra che si chiami così, Allianz, ma pazienza. “Rigore”, dicevamo, avranno pensato tutti i numerosi tifosi della Juvenuts che, quella sera di poco più di sei mesi fa, popolavano l’Allianz, invece l’arbitro, il signor Cuneyt Cakir da Istanbul, non solo non aveva dato rigore, aveva ammonito anche Paulo Dybala per simulazione, che i tifosi della Juventus presenti quella sera all’Allianz devono aver pensato “Be’, pazienza, un’ammonizione, cosa vuoi che sia”, solo che se ne sono accorti poi al sessantaseiesimo, quando Paulo Dybala è stato espulso, di cosa vuol dire un’ammonizione.
Anche se, a questo proposito, ci sono da dire almeno due cose: che Paulo Dybala, al sessantaseiesimo, ha fatto un fallo così bruttino che forse lo espellevano comunque anche se non lo avessero ammonito nel primo tempo, e che allora, al sessantaseiesimo, ormai eran già due minuti che il Real Madrid aveva già fatto il secondo gol, sempre Ronaldo, che si vede era in forma, quella sera lì. Non tanto in forma, quella sera lì, dev’esser stato Buffon, che sei minuti dopo l’espulsione di Dybala, al settantaduesimo, aveva fatto un’uscita non proprio impeccabile e aveva preso il terzo gol, molto sfortunato anche Buffon, quella sera lì, e sfortunatissimo, va detto, un giocate colombiano che si chiama Cuadrado, che verso la fine della partita avrebbe potuto segnare il cosiddetto gol della bandiera, 3-1, ma gli era venuto fuori un tiro così scombinato che il gol della bandiera non l’aveva mica segnato. «Be’, poco male, – devono aver pensato gli spettatori – perdere 3 a 0 o perdere 3 a 1 che differenza c’è?». L’avrebbero capito otto giorni dopo, che differenza c’è, quando, a Madrid, allo stadio Santiago Bernabeu, si sarebbe giocato il ritorno dei quarti di finale di Champions league. E è precisamente quella, la partita di cui parleremo la prossima settimana.

[Uscito ieri sulla Verità]

Messico

sabato 20 Ottobre 2018

La prima partita di cui ho avuto coscienza come un fatto di una certa importanza è una partita che non ho visto né allo stadio, né in televisione, è una partita della quale ho sentito parlare. Era il 1970, e c’erano i mondiali in Messico, e io avevo appena compiuto sette anni e le partite non le guardavo, non so perché. Direi che non ero abituato, o che era uno spettacolo che i miei consideravano troppo cruento, per un bambino così piccolo, ma forse anche no, perché due anni prima, nel 1968, avevano portato me e mio fratello a San Siro a vedere la partita che avrebbe incoronato il Milan campione d’Italia per la nona volta. Mio babbo era milanista, i miei fratelli e mia mamma lo sono ancora, io per un po’ lo sono stato, adesso son degli anni che ho smesso, tengo solo per il Parma, che mi basta e mi avanza, come squadra alla quale tenere. Di quella prima partita vista allo stadio, a San Siro, a cinque anni, mi ricordo solo che quando il Milan aveva fatto gol, il gol che voleva dire che il Milan era campione d’Italia, io mi ero spaventato per il rumore che aveva fatto la gente. Un grido terribile, come se fosse successo chissà che cosa; mi ricordo mio nonno che si era voltato, c’era anche mio nonno, anche lui milanista, mi aveva strappato dalle mani la bandierina che avevo in mano e si era messo a sventolarla. Mi sembravan dei matti, e alla fine della partita, se mi avessero chiesto «Sei contento?», io avrei risposto che ero contento, solo che, dentro di me, più della contentezza il sentimento che mi animava era la paura che mi faceva l’impressione di essere in mezzo a dei matti. A pensarci, forse ero io, che nel ’70 non volevo vedere le partite del mondiale perché troppo cruente.
Di quei mondiali del Messico mi ricordo che, quando c’erano i quarti di finale, Italia – Messico, io ero in macchina con mio babbo che ascoltava la partita per radio, e ogni volta che l’Italia segnava, ha segnato 4 volte, in quella partita, l’Italia ha vinto 4 a 1, mio babbo alzava le braccia e mia nonna lo sgridava: «Tieni sodo il volante!». Ma lo diceva in un modo che non era arrabbiata, lo diceva come se fosse contenta; era un periodo, era il 1970, che noi, come famiglia, eravamo contenti: avevamo una bella macchina, svedese, una Volvo, mio babbo aveva una piccola ma florida impresa edile, l’Italia, come nazione, andava verso un progresso che ci sembrava indefinito e ai quarti di finale dei mondiali del Messico vincevamo 4 a 1 contro il Messico, andava tutto come doveva andare. Della partita successiva, di quei mondiali, Italia Germania 4 a 3, non mi ricordo niente, mentre mi ricordo benissimo la finale, Brasile Italia 4 a 1, perché mio babbo, poi, negli anni, di quella partita ha parlato moltissime volte.
Non si spiegava come mai Valcareggi, l’allenatore, invece di fare entrare Rivera al posto di Mazzola all’inizio del secondo tempo, come aveva fatto contro Messico e Germania (e Rivera aveva segnato sia contro il Messico che contro la Germania, Mazzola invece no, diceva mio padre), lo aveva fatto entrare a sei minuti dalla fine, quando il Brasile vinceva già 3 a 1. «Che, in sei minuti, cosa vuoi fare?», diceva mio babbo. A mio babbo piaceva poi molto sottolineare una cosa che non so se sia vera, che quando la nazionale era tornata in Italia, all’aeroporto, a Fiumicino, gli avevan tirato i pomodori. Erano arrivati secondi nel mondo, e gli avevano tirato i pomodori. Ecco io, allora, il 14 giugno del 1970, quando mio babbo lasciava il volante della sua Volvo per esultare perché aveva segnato Rivera, io avevo sette anni e pensavo che tutto stava andando bene e che sarebbe continuato a andar bene per sempre.
Cinque giorni dopo, il 21 giugno del 1970, quando quel benessere calcistico era svaporato per via, forse, del fatto che Valcareggi aveva fatto giocare a Rivera solo 6 minuti, sapevo già che non era così, che le cose non è che ti vanno bene perché sei tu, perché sei italiano e sei bello. Non abbiamo più avuto una Volvo, per dire, in famiglia.
E adesso, che siamo nel 2018, e che sono passati 48 anni, da quei mondiali, e che io di anni ne ho 55, adesso io, quando mi sembra di vivere un periodo che le cose non vanno benissimo, quando faccio fatica, quando mi devo dire, nella mia testa, «Dài dài dài dài dài», mi sembra che sia normale, perché son dei decenni, che funziona così, nella mia vita: bisogna fare fatica.
Quando invece mi sembra che vada tutto bene, quando tutto mi sembra funzioni alla perfezione, io, sarò strano, ma non sono contento: mi vien da agitarmi, da ribellarmi, mi aspetto qualcosa che mi rimetta al mio posto. È una cosa che ho scritto in uno dei primi romanzi che ho poi pubblicato, la storia del filo da torcere, che quando lo trovi lo torci, e quando l’hai torto ne cerchi, e non hai mai finito, mi sembra. E di quei mondiali messicani, e dei calciatori italiani che vi hanno partecipato, Albertosi, Riva, Rivera, Mazzola, Boninsegna, Burgnich, Facchetti e di tutti gli altri, che nel gergo dei commentatori sportivi venivano chiamati “messicani”, c’è un’ultima cosa, che voglio dire, e è successa molti anni dopo, quando facevo le superiori e era un periodo che le squadre italiane non potevano assumere calciatori stranieri, perché la nazionale italiana, ai mondiali del ’74 e del ’78, era andata male, e si era trovato questo rimedio, di chiudere le frontiere, come si diceva allora. E un mio compagno di classe appassionato di baseball, che si chiama Roberto, e che si era messo a seguire un po’ il calcio perché il calcio a noialtri maschi della nostra di classe piaceva, lui, una volta, nel 1997, quando il Milan aveva vinto il decimo scudetto con Albertosi, come portiere (io tenevo ancora per il Milan), questo mio compagno di classe, Roberto, mi aveva detto: «È comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri». «Che stranieri?», gli avevo chiesto io. «Come che stranieri?», mi aveva detto lui, «Albertosi». «Ma Albertosi non è mica straniero», gli avevo detto io. «Come no, aveva detto lui, è messicano».E io, sul momento, non sapevo come dirglielo, a Roberto, che Albertosi era nato a Pontremoli. Era uno sbaglio che mi sembrava così bello, il suo, che mi veniva da dargli ragione. «È vero, Roberto, è comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri».

[uscito ieri sulla Verità]

Dilettanti

mercoledì 10 Ottobre 2018

Sto scrivendo una serie di pezzi sul calcio, ne ho scritto la scorsa settimana e uno oggi, sulle partite memorabili che ho visto, e è un esercizio che mi sembra interessante e difficile: la deriva da evitare, qui, è accreditarsi come esperto, far credere al lettore che tu sei uno che ne sa. Indipendentemente dal fatto che tu ne sappia o non ne sappia. Io forse sono facilitato per via che io non ne so, ma anche a me, che non ne so, viene spontaneo usare dei termini e un tono che mi connotino, agli occhi del lettore, come un esperto.
Mi sembra che si dovrebbero scrivere, questi articoli sul calcio, come se si fosse un dilettante.
Che poi è la stessa cosa che mi sembra si dovrebbe fare quando si scrivono dei romanzi. O dei racconti. O degli articoli di politica estera.
Che non ho mai scritto, ma che, se li scrivessi, credo mi sforzerei di scrivere da dilettante.
Non ne ho mai scritti, comunque.
E non credo ne scriverò mai.
Ma se dovessi.

I misteri dell’etrusco

sabato 6 Ottobre 2018

Qualche anno fa, il periodo che mia figlia faceva le elementari, quando andavo a prenderla a scuola, al lunedì, arrivavo di solito un quarto d’ora prima e c’erano sempre due o tre genitori di bambini che facevano le elementari con mia figlia che parlavano delle partite del campionato di calcio del giorno prima e io mi mettevo a ascoltare e mi stupivo della cura e dell’attenzione con le quali questi genitori avevano seguito la giornata di campionato, della profondità dell’analisi tecnica, tattica, strategica e psicologica e degli sviluppi che lì, nel cortile della scuola Armandi Avogli, a Bologna, sembravano certi, inevitabili, in virtù del tono quasi scientifico di quelle conversazioni che sentivo e che si ripetevano, pensavo, tutti i lunedì all’uscita di tutte le scuole di tutt’Italia, e mi ero detto che, se una parte anche minima di questa intelligenza e di questa capacità di analisi fosse dirottata, per dire, sullo studio della lingua etrusca, probabilmente nel periodo di tempo corrispondente a un girone di ritorno si sarebbe trovata la risposta a molti misteri che, credo, da secoli tormentano i linguisti di mezzo mondo. Adesso, son passati quattro anni, mia figlia fa lo scientifico e io, in questi quattro anni, non ho dato nessun significativo contributo allo studio della lingua etrusca, mi sono invece rimesso a seguire con una certa continuità il campionato di calcio. La scusa è un libro che sto provando a scrivere, ma il motivo vero credo che sia che, a me, il calcio piace più della lingua etrusca; ho dei gusti così, un po’ alla buona, nonostante ogni tanto me ne dimentichi, e la nuova serie di pezzi che scriverò per La verità, è una serie che parla delle partite di calcio più belle che ho visto nella mia vita, e son proprio curioso di vedere cosa salterà fuori e comincio da una partita che ho visto male e che è finita in un modo orribile, per me. Io, essendo nato a Parma, io tengo per il Parma, e ho cominciato a tenere per il Parma nel 1970, quando avevo sei anni e il Parma giocava in serie D, nel girone B, e i suoi principali avversari erano il Crema, la Gallaratese, la Pergolettese e la Cremonese.
Ho cominciato a andare allo stadio qualche anno dopo, quando il Parma era in serie C, e i ricordi più vividi, della mia esperienza di tifoso del Parma, hanno a che fare col freddo. Ho preso tanto di quel freddo, allo stadio Tardini di Parma, e ho l’impressione che, nei miei periodici riavvicinamenti al calcio, oltre al fatto che mi piace, c’entri anche il desiderio di dare un senso a tutto quel freddo e a quella nebbia e a tutte quelle sconfitte, perché io, devo dire, ho elaborato una teoria che a me sembra che, il senso del calcio, non sia vincere, ma perdere. Perché vincere, io mi ricordo l’Italia, i mondiali, le due volte che ha vinto, la gente sopra le macchine, con le bandiere, con le facce pitturate di blu, o di tricolore, a gridare, a suonare il clacson, a bere, non so, io non lo capisco tanto bene, che gusto c’è, a vincere. Secondo me, mi sbaglierò, ma quando perdi, magari quattro a zero, o cinque a uno, e nell’andare a casa guardi per terra e vedi tutte le foglie, tutte le crepe che ci son sull’asfalto e ti vien da pensare a tutto quello che non va mica bene nella tua vita, a tutte le cose che ti eri ripromesso che le facevi e poi non le hai fatte, tutto il freddo che hai preso, ecco, quei momenti lì, che te ti chiedi «Ma che vita sto facendo?», secondo me son momenti che hanno più senso, di quando sei in centro, imbottigliato sopra una macchina, che canti l’inno nazionale con una bandiera in mano e la faccia dipinta di blu, o di tricolore. Il tennista Andre Agassi, in un libro che si intitola Open, racconta cos’ha pensato dopo che ha vinto il primo Wimbledon della sua vita (la traduzione è di Giuliana Lupi): «Ho la sensazione di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto – vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente». Ciò detto, io non parlerò solo di partite del Parma, e non parlerò solo di sconfitte, e la partita da cui voglio cominciare è una partita del Parma ma non è una partita in cui il Parma ha perso. No. Ha vinto. Però non ha vinto. Una partita strana. Era il febbraio del 1985, quell’anno il Parma giocava in serie B e quel giorno era ultimo in classifica, e giocava contro il Bari, che era secondo in classifica, e apparteneva a Matarrese, che era il fratello del Matarrese che era presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, se non ricordo male, e quando avevan cominciato a giocare, Parma e Bari, il Parma dopo un po’ aveva fatto gol (Pin), poi era finito il primo tempo, era scesa un po’ di nebbia, io ero in curva nord, non si vedeva tanto bene dall’altra parte, si sentiva però, e a un certo punto si era sentito gridare, e dopo qualche secondo era arrivata la notizia che il Parma aveva fatto il secondo gol (Lombardi), e dopo un po’ si era sentito gridare, e dopo qualche secondo si era sparsa la notizia che il Parma aveva fatto il terzo gol (Berti), e dopo un po’, si era sentito gridare ancora, e tutti avevamo pensato che il Parma aveva fatto il quarto gol invece dopo qualche secondo si era sparsa la notizia che l’arbitro, Pezzella da Frattamaggiore, aveva sospeso la partita all’ottantasettesimo, a tre minuti dalla fine, per nebbia. Allora noi, che eravamo in curva, eravamo scesi dalla curva ma non eravamo andati a casa, eravamo rimasti nel piazzale a vedere cosa succedeva. Io mi ero messo a parlare con un poliziotto gli avevo detto «Ma secondo lei, è normale fare delle cose del genere?». E lui, che era un signore pelato, che mi sembrava pacato, ragionevole, ha scosso la testa ha detto qualcosa del tipo «Lascia perdere». Poi, tutto d’un tratto, deve aver ricevuto un ordine, ha abbassato il casco, mi ha detto «Vai via». Io, non davo fastidio a nessuno gli ho detto «No, non vado via, non do fastidio a nessuno». Lui mi ha detto «Vai via». Io gli ho detto «No, non vado via». Lui ha afferrato il manganello, mi ha dato una manganellata di punta sulla pancia. Io, sono andato via. E nell’andare via pensavo Che cose interessanti succedono, allo stadio Tardini di Parma, e ero quasi contento. La partita l’hanno rifatta la settimana dopo, ha vinto il Parma uno a zero (gol di Facchini). Ecco. Alla prossima.

[Uscito ieri sulla Verità]

La presunzione di avere ragione

sabato 29 Settembre 2018

Ho scritto, per la Verità, quattro pezzi sui social network, e il penultimo finiva con un signore che, senza sapere niente di avanguardie russe, commentava una fotografia del grande fotografo Aleksandr Rodčenko, una pubblicità del 1924 per una casa editrice sovietica, sostenendo che fosse un’immagine pornografica che aveva a che fare con il 1968, e pretendeva anche di avere ragione; qualche giorno fa, mi è successo il contrario, cioè che, su un social network, parlando di un argomento di cui non sapevo niente, son stato io a aver la presunzione di avere ragione.
È successo che una lettrice, su Twitter, ha fotografato una pagina di un libro che ho scritto io, che si intitola La grande Russia portatile, dove c’è scritto che, in una biografia di Jurij Gagarin, il primo cosmonauta, «si dice che quando, negli anni ottanta, uno scienziato americano che aveva partecipato alla missione della Nasa che aveva portato Armstrong sulla luna, aveva incontrato uno scienziato sovietico che aveva partecipato alla missione che aveva portato Gagarin nello spazio, l’americano aveva detto al sovietico: “Ascolta, noi abbiamo speso 18 milioni di dollari per l’ideazione e la costruzione di speciali articoli da cancelleria, penne, soprattutto, che funzionassero in assenza di gravità, voi come avete fatto?”, e che il sovietico, un po’ imbarazzato, avesse risposto “Noi? Eh, noi, abbiamo usato le matite”».
Un signore che si chiama Paolo D’Angelo, «space Journalits», c’è scritto nel suo profilo, ha obiettato che Gagarin, negli anni ’80, era morto da tempo, e che la storia delle penne e delle matite è pura fantasia, e ha chiesto il conforto di un suo conoscente, che si chiama Paolo Attivissimo, «giornalista informatico, cacciatore di bufale, conduttore Radio Svizzera», c’è scritto nel suo profilo, che ha scritto che Gagarin è fuori contesto e che la storia delle biro e delle matite è una balla, e ha linkato un articolo nel quale si dice che questa storia, «anche se è divertente e fa riferimento alla semplicità delle soluzioni adottate dagli ingegneri russi, notissima fra gli addetti ai lavori», non è vera. Gli americani non avrebbero speso tutti quei milioni di dollari e i russi avrebbero usato sia le penne che le matite, nello spazio, a quanto pare.
Io ho risposto dicendo che queste cose non le dice Gagarin, e che quindi il fatto che, negli anni 80, Gagarin sia morto, è del tutto indifferente, e che Gagarin non è per niente fuori contesto, visto che si parla di lui, e che, nel libro che ho scritto io, nessuno dice che la storia delle penne e delle matite è vera, si dice che è raccontata in una biografia, nella quale, effettivamente, è raccontata.
Paolo Attivissimo ha ribattuto così: «Capisco. Ma a me dispiace quando l’estetica vince sulla correttezza storica. Ogni rettifica mancata alimenta il mito e lo rinforza» e ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto se avessi messo una nota dove dicevo che la storia delle matite sovietiche non era vera.
Io ho risposto che nel mio libro non c’è nemmeno una nota, e che questa discussione mi faceva venire in mente uno scrittore di Praga che si chiama Patrik Ourednik che, nel 2001, ha scritto un libro, intitolato Europeana, che è diventato il libro dell’anno in Repubblica Ceca e che racconta la storia del XX secolo dando a tutto, alla prima guerra mondiale, all’invenzione delle gomme da masticare, ai campi di sterminio, all’invenzione della Barbie, alla scoperta della psicanalisi, la stessa enfasi, come se tutto avesse la stessa importanza.
Sembra un libro scritto da uno storico con l’esaurimento nervoso ed è un tremendo ritratto del XX secolo, dove si legge, tra tante altre cose: «I comunisti dicevano che i membri di una società comunista non avevano bisogno del sesso perché il piacere più alto per l’uomo proviene dal lavoro di cui poteva essere fiero mentre nel capitalismo i lavoratori sfruttati non traevano alcuna gioia dal loro lavoro e dovevano fare ricorso a dei succedanei» (la traduzione è di Andrea Libero Carbone).
Ecco, io credo che, se qualche sessuologo, all’uscita del libro di Ourednik, avesse obiettato che non è vero che i lavoratori comunisti non avevano bisogno del sesso, e qualche sindacalista avesse obiettato che non è vero, che in occidente i lavoratori non traevano alcuna gioia dal loro lavoro, Ourednik avrebbe potuto ribattere che lui non aveva scritto che quelle cose eran vere, aveva scritto che venivano dette, come, effettivamente, erano state dette, nel mondo sovietico.
In un saggio dove ragiona sul proprio modo di intendere la letteratura, Ourednik scrive che, in letteratura, «non si tratta più di sapere chi ha vinto la battaglia di Solferino, ma di vedere come i cronisti l’hanno descritta». E continua dicendo che «se la letteratura deve realmente avere una funzione», la sua funzione è la realizzazione dell’utopia anarchica, «vale a dire un mondo in cui le verità non coesistono più verticalmente ma orizzontalmente, e ciò nonostante pacificamente. Se, un giorno, questo mondo arrivasse, – conclude Ourednik – allora la letteratura perderebbe la sua ragion d’essere. Non si può avere tutto, un mondo senza conflitti e la letteratura».
Questa utopia anarchica realizzata a me sembra abbia a che fare con la storia di quel padre di famiglia che, quando il suo figlio maggiore era andato a lamentarsi del figlio minore aveva detto, al figlio maggiore: «Hai ragione». Poi, quando il figlio minore era andato a lamentarsi del figlio maggiore, aveva detto, al figlio minore: «Hai ragione». Poi, quando la moglie gli aveva detto «Non puoi dare ragione a tutti e due», ci aveva pensato un po’ poi le aveva detto, alla moglie: «Hai ragione anche te».
Questo sembra un mondo in cui si è realizzata l’utopia anarchica, un modo in cui tutti hanno ragione, solo che è un mondo che a me, che aspiro a essere anarchico, non piace. E allora?
Allora la risposta mi sembra la dia ancora Ourednik nel suo libro successivo, Istante propizio, 1855, che, quando è uscito in Italia, nel 2006, aveva una quarta di copertina (che avevo scritto io) che diceva così: «Riassunto del libro: “È bella l’anarchia?” “È bellissima.” “È possibile?” “Non è possibile.” “È meno bella per il fatto di non essere possibile?” “Non è meno bella”».
Siamo salvi: l’anarchia non è possibile.
E la letteratura non è il posto delle ragioni, è il posto degli errori. Forse.

[Uscito ieri sulla Verità]

Leggere e guardare

sabato 15 Settembre 2018

Mi hanno detto che i social network che uso io, che sono Facebook e Twitter, sono, soprattutto Facebook, dei social network da vecchi.
Mia figlia, che ha quasi 14 anni, e i suoi compagni di classe, che hanno 14 anni anche loro, non hanno un profilo di Facebook e non hanno nessuna intenzione di aprirlo. Che è un po’ un peccato, per Facebook. Che è nato nel 2004 e, per una manciata di anni, è stata una cosa molto moderna. Adesso non più. E, tra dieci anni, o poco più, in Italia lo useranno solo gli over cinquanta.
Ci sono, quelle mode che duran pochissimo. Come la moda dei paninari. O la moda degli orologi con le fasi lunari. O la moda delle giacche con le spalline. Negli anni ottanta eran delle cose da giovani, da gente che sapeva stare al mondo, che era informata di tutto, adesso sembrano un po’ ridicole, come ridicoli, agli occhi dei giovani di oggi, devono probabilmente sembrare quelli che hanno un profilo di Facebook, tra i quali anch’io, c’è da dire.
C’è però anche da dire che io non ho solo un profilo di Twitter e di Facebook, ne ho anche uno di Instagram, che invece mi dicono che sia un social network che quello sì, che oggi è di moda e che promette di restarlo per tutto il 2019, forse, perfino.
Non l’ho mai usato, il mio profilo di Instagram, cioè l’ho usato solo per andare a vedere i profili di altri, ma di pochi, seguo pochissima gente, su Instagram: Gervinho, che è un giocatore del Parma, che è la squadra per cui tengo; Alicia Piazza, che era la vicepresidente della Reggiana, che era la squadra antagonista di quella per cui tengo (adesso è fallita, si chiama in un altro modo, Audace, o qualcosa del genere, e Alicia Piazza non è più vicepresidente); Pierluigi Bersani, Maria Elena Boschi e Corrado Passera.
Maria Elena Boschi e Corrado Passera li seguo perché mi piacciono i fallimenti (politici, non personali, non li conosco e magari loro, come persone, stanno benissimo), Bersani è quello che seguo da più tempo e proprio per seguire Bersani, nel 2012, devo avere aperto il mio profilo di Instagram, se non ricordo male.
Perché c’era appena stato il terremoto, in Emilia, e Bersani aveva postato una foto, Instagram è il social che la gente, soprattutto, ci mette delle foto, Bersani aveva postato una foto che c’era una strada di Mirandola piena di mattoni. Sembrava un fiume di mattoni, come uno tzunami di mattoni, un’ondata di mattoni che aveva distrutto tutto quello che aveva trovato sulla sua strada, faceva impressione, faceva paura, e immaginarti che quella cosa era una cosa vera e vicinissima a casa tua, io quella foto l’avevo guardata dalla mia casa di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, era doloroso, perfino.
E, anche per questo, la scritta che c’era sotto quella foto suonava in un modo stranissimo. C’era scritto: «pbersani sta usando Instagram – un modo divertente ed alternativo per condividere la tua vita con i tuoi amici attraverso una serie di immagini. Scatta una foto e scegli un filtro per trasformare lo scatto in un ricordo che rimane per sempre».
Che Bersani, dite quel che volete, ma secondo non è mai stato capace, di maneggiar la modernità, chissà come si vestiva negli anni ottanta, mi vien da pensare. Il suo profilo, tra l’altro è in disuso, l’ultimo post è del 2013, cinque anni fa.
Ma, a parte Bersani, che è anche lui un po’ passato di moda, forse, a parte Bersani mi viene da chiedermi come mai Instagram è più moderno, di Facebook e di Twitter.
Forse c’entra il fatto che Instagram è un social prevalentemente di immagini. Puoi postare anche un testo, ma quello che domina, lì, sono le immagini, le foto, come quella di Bersani.
Mi viene in mente un convegno a cui son stato invitato, sabato e domenica, a Gressoney, convegno che si intitola Visto si stampi e il cui tema è «Guardare is the new leggere», dove credo si ragionerà sul fatto, che è vecchio anche lui di cent’anni (lo diceva un poeta russo straordinario che si chiama Velimir Chlebnikov) che l’immagine ha vinto, che è più potente, del testo.
Ecco, io, devo dire, non lo so, se sono d’accordo.
E non so se sono d’accordo perché nella mia esperienza, semplicemente, non è vero.
Il primo libro da grandi che ho letto, il primo libro senza figure, sono passati più di quarant’anni e io, di quel momento lì che ho scoperto i libri da grandi, quante cose ci possono essere dentro un libro senza figure, mi ricordo tutto: mi ricordo dov’ero, sotto il portico di casa nostra in campagna, mi ricordo mia nonna che cantava in cucina, mi ricordo che passava mio babbo con dei secchi di calce, mi ricordo la sedia arancione su cui ero seduto, mi ricordo la polvere che c’era nell’aria, mi ricordo la sensazione stranissima dovuta al fatto che io, incantato dal libro, non ero per questo incanto estraniato dal mondo ero dentro, nel mondo: leggere produceva un effetto stranissimo, faceva diventare il mondo più mondo.
E questa sensazione di esser nel mondo (più mondo) l’ho poi riprovata ogni volta che ho riconosciuto la letteratura: Delitto e castigo, di Dostoevskij, sdraiato nel letto della mia stanzetta minuscola di Basilicanova, mi sembra di vedere ancora il copriletto, le Poesie di Chlebnikov, da in piedi, appoggiato allo scaffale dei russi della Biblioteca Guanda di Parma, e potrei quasi descriver le facce di chi stava studiando, il primo libro che ho letto per intero in russo, Romanzo teatrale, di Michail Bulgakov, sulla metropolitana di Mosca nel 1993, che ero così contento, che finalmente leggevo un libro in russo che mi chiedevo “Come andrà a finire?”, e mi ricordo, perfettamente, come ho alzato la testa, in quella metropolitana, quando mi sono accorto che era un libro incompiuto, e mi sembrava che, in quel vagone verde e marrone, tutti i passeggeri mi guardassero scuotendo la testa e pensando “Che deficiente”.
A ciascuno di questi libri, e a tanti altri, io devo, dentro di me, un’immagine potentissima, e la potenza di queste immagini che sono lì, nella memoria della mia pancia, è dovuta a un testo, non a una figura; i testi, quando ci prendono, sono produttori di immagini che, credo, resisteranno anche a Instagram, ben oltre il 2019, secondo me.
Come il cielo della Russia; a me piace molto andare in Russia, e il cielo della Russia io ho cominciato a vederlo quando ho letto una poesia di Chlebnikov che dice: «Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / Un ditale di latte, / E questo cielo / E queste nuvole». Senza questa poesia io vedrei molto meno, quando sono là.

[uscito ieri sulla Verità]

Social network n. 3

sabato 8 Settembre 2018

Io faccio una vita piuttosto ordinaria e devo dire che nella mia quotidianità, ormai, i social network hanno sostituito il bar. Negli anni 80 del 900 la maggior parte dei miei pomeriggi li passavo al bar, negli anni 10 di questo secolo nuovo la passo sui social network. Ho aperto un blog tanti anni fa, dieci, forse, e da allora metto su quel blog un paio di cose tutti i giorni, non solo cose che ho scritto io, anche cose scritte da altri, prevalentemente da russi, visto che la letteratura russa è quella che conosco meglio e l’unica che ho studiato con una certa costanza per un periodo di tempo non breve (fa un po’ impressione, dirlo, ma sono trent’anni, ormai). Gli unici giorni, in questi anni, in cui non ho aggiornato il mio blog, son state due settimane che ero in ospedale, cinque anni fa, per un trauma cranico, e i lettori del blog, mi hanno raccontato poi dopo, si erano accorti che era successo qualcosa perché non aggiornavo il blog.
Come se i miei amici, negli anni ottanta, non mi avessero visto per due giorni di seguito al bar. Io, i giorni che non ho niente da dire, io di solito scrivo sul blog «Oggi non ho niente da dire»; quando non ho da dire neanche il fatto che non ho niente da dire, o quando ho molto da fare, allora io non è che non scrivo niente, adesso; adesso scrivo «Ho molto da fare ma sto bene, non sono in nessun ospedale, sono a casa a lavorare», o qualcosa del genere, perché mi dispiace che qualcuno, magari solo uno, si preoccupi per via del fatto che non ho scritto niente, quel giorno lì. Uno dei titoli più belli, dei libri che ho letto negli ultimi anni, è un titolo che poi è stato cambiato dalla casa editrice, è il titolo del primo romanzo di Ugo Cornia, Sulla felicità a oltranza, che, in origine, si intitolava Tra un po’ saremo tutti morti e che io, quando l’avevo letto, ero stato stupefatto dall’esattezza e dalla semplicità di quella previsione: tra un po’, tra qualche decina di anni, che sono pochissimo, in confronto all’eternità, tutti noi, tutti i vari miliardi di esseri che respirano in questo momento sul globo terraqueo, tra poco, tutti noi che abbiamo in comune, se non altro, l’attività respiratoria, qui sulla terra, sui mari e nei cieli, smetteremo tutti di respirare, e non è una cosa necessariamente triste, ma, soprattutto, è una cosa vera, e detta, in quel titolo, in un modo ammirevole (che mi ricorda una memorabile quartina di Metastasio che dice: “Non è ver chi sia la morte / il peggior di tutti i mali / è un sollievo de’ mortali / che son stanchi di soffrir”).
E questa cosa così comune, morire, succederà anche a me, e allora chissà cosa ne sarà, del mio blog, e dei miei account di facebook e di twitter sui quali tutti i giorni, due volte al giorno, giro le cose che scrivo sul blog perché la gente che mi segue su facebook e su twitter mi dicano che sono bravo, o bravissimo; allora potranno smettere, di dirmi che sono bravo, o bravissimo dal momento che, adesso mi fanno molto piacere, se e quando me lo dicono, allora credo che mi sarà piuttosto indifferente, ma non sono sicuro, vedremo.
Intanto, per il momento, continuo a mettere in rete un paio di post al giorno, cose che hanno più a che fare con la mia quotidianità, che con l’attualità, cose che mi piacciono, o che mi sorprendono tra quel che mi succede e quel che leggo, e l’altro giorno ho messo un pezzetto di un libro che mi piace molto, un libro di Viktor Šlovskij sulla rivoluzione intitolato Viaggio sentimentale quel pezzetto qua: «È bella, un’esplosione. Accendi la miccia, scappi via, ti corichi e guardi. La terra si gonfia sotto i tuoi occhi. La vescica cresce per una frazione di secondo, si stacca da terra. Sale una colonna scura, forte, grande. Poi s’ammorbidisce, assume la forma d’un albero. E crolla, grandine nera. È bello come il nitrito di un cavallo» (la traduzione è di Maria Olsoufieva). Ho scritto questa cosa sul blog e poi l’ho girata su twitter e facebook, e su facebook un lettore ha commentato: «È un’immagine un po’ squallida». Io ho pensato che fosse stato colpito dalla crudezza della descrizione e gli ho risposto che era un libro sulla rivoluzione, bellissimo, secondo me, e che l’immagine, l’esplosione come il nitrito di un cavallo, era bellissima anche lei, secondo me. Lui mi ha risposto che «una donna dalla parvenza sessantottina che simula sesso orale con la maniglia della porta non capisco cosa possa avere a che fare col testo succitato». Allora ho capito che non si riferiva all’immagine di Šlovskij, ma all’immagine di copertina, che è una fotografia del 1924 del fotografo russo Aleksandr Rodčenko a Lilja Brik, per la pubblicità di una casa editrice statale sovietica, la Lengis, nella quale la Brik urla: «Knikgi», che significa libri, e poi c’è scritto «Per tutti i rami del sapere». Allora gli ho scritto che è una fotografia celebre, che non c’entra né con il ’68 né con il sesso orale e ha invece molto a che fare con la rivoluzione russa e con quel che ne è seguito. E lui, questo signore, che si chiama Michele Bussoni, ha scritto «Liminal» che vuol dire subliminale, come a intendere che, apparentemente, quell’immagine non ha niente a che fare con il sesso orale, e con le maniglie, e con il ’68, ma, in realtà parla proprio di quello.
Io, devo confessare, non gli ho chiesto come faceva Rodčenko a parlare del ’68 44 anni prima che ci fosse, il ’68, gli ho dato ragione, gli ho scritto «Certo certo, hai ragione, è evidentemente squallido sesso orale, e Rodčenko è, come è noto, uno squallido fotografo pornografico sessantottino, grazie del contributo», e lui questo Michele Bussoni, ha risposto: «Evito di farvi una lezione sui messaggi subliminali che ci sarebbero sia nella immagine che nel testo. Poiché capire e approfondire non è proprio dell’italiano medio».
Cioè lui, dall’alto della sua preparazione sul ’68, sul sesso orale e sulle maniglie, evita di fare lezioni a noi, italiani medi, che non capiremmo. Io gli ho chiesto per favore di farcela, invece, che sarebbe interessantissima, credo, una sua lezione sulle maniglie, e sul sesso orale, e sul ’68, e nel caso ne parleremo nella prossima puntata, di questa breve serie sui social, che sarà anche l’ultima.
Intanto, finisco dicendo che la gente, sui social, a me un po’ fa paura, perché certa gente, quando scrive quello che pensa, ti accorgi che han delle teste che non le mangiano neanche i maiali, come dicono a Parma. Solo che, a pensarci, anche certa gente nei bar, a Parma, negli anni ’80, mi faceva un po’ paura perché mi sembrava che avessero delle teste che non le mangiavano neanche i maiali, quindi, dopotutto, niente di nuovo.

[Uscito ieri sulla Verità]

Arrivederci

sabato 1 Settembre 2018

«Social Network» è un’espressione che è entrata recentemente nell’uso italiano, e che io credo di sapere cosa vuol dire, perché la uso, ma in realtà non lo so benissimo. Ci sono queste espressioni che ci circondano, che usiamo anche noi, ma delle quali non conosciamo bene il significato, come l’espressione «Startup», che io credo voglia dire un’azienda che comincia, ma non son proprio sicuro che valga per tutte le aziende, e quando, qualche anno fa, hanno aperto sotto casa mia un’agenzia di pompe funebri, io per un po’ di tempo, ho avuto la tentazione di entrare e di chiedere: «Scusate, voi siete una startup?»; poi non l’ho chiesto e l’agenzia di pompe funebri ha chiuso adesso non farei più in tempo.
Diversamente dalle Startup, però, io coi social network, ho a che fare, li uso, ho un blog, ho un account su Facebook, uno su Twitter e uno su Instagram, e posso provare a dire quel che mi sembra da quello che vedo, senza pretendere di arrivare a una definizione esaustiva. Comincerei da Facebook.
Qualche anno fa, quando ero appena entrato su Facebook, era un periodo che tutti parlavan di Facebook e molti ne parlavano male, come succede spesso con le novità, e io avevo letto un’intervista a un esperto di Social network (o di social media, che devono essere i social network su internet), che lui diceva una cosa che all’epoca mi era sembrata sensata, che Facebook non era né buono né cattivo: che era un po’ come l’elenco telefonico, che poi dipendeva da te, se usarlo bene o male. Adesso, dopo un po’ di anni che lo uso, io credo che Facebook, che è tante cose insieme, sia un po’ diverso, dall’elenco telefonico, perché l’elenco telefonico, che a me piace molto, è una di quelle cose che son state utilissime e adesso non valgon più niente e portano, nella loro storia, un’idea di rovina che a me sembra bellissima, ma l’elenco telefonico, a me, per esempio, non mi ha mai detto che una che una cosa che dicevo io, per telefono, era bella; invece su Facebook, come sanno tutti quelli che usano Facebook, la differenza tra Facebook e l’elenco telefonico è che Facebook, lui, se tu metti per esempio una foto, su Facebook, o se scrivi una storiella, dopo pochi minuti c’è un po’ di gente che ti dice «Mi piace!».
Ecco, Facebook, diversamente dall’elenco telefonico, lui ha quella caratteristica lì che ti dice che tu piaci alla gente. Che è una cosa, come se fosse una macchina che, nel corso di una giornata, ti fa entrare dentro la casa centinaia di persone che ti dicono «Mi piaci!».
Detta così, non c’è molto da stupirsi, del successo di Facebook.
Io mi ricordo, quando ero piccolo, mi ero molto meravigliato quando avevo scoperto che non tutti mi volevano bene; mi sembrava una cosa stupefacente e un po’ ingiusta. Credo sia per quello che ho fatto un po’ delle cose che ho fatto, ma questo è un altro discorso, quello che volevo dire è che ci sono dei Social media, come Facebook, per esempio, che tutti i giorni ti dicono che c’è qualcuno, che magari tu non conosci neanche, che, in un certo senso, ti vuol bene. O che dice di volerti bene. Che non è la stessa cosa ma a te basta, se te la fai bastare.
Un mio amico, quando ha saputo che dovevo scrivere una serie di articoli sui Social network, mi ha girato un video di un comico americano, che si chiama Anthony Jeselnik, che dice che, quando succede un disastro, quelli che intervengono sui social Network per dire che i loro pensieri e le loro preghiere vanno alle vittime, in realtà non dicono quello (cosa se ne fanno, le vittime, dei loro pensieri e delle loro preghiere?). In realtà dicono: «Ricordatevi di me. Anche in un giorno così complicato, con tante distrazioni, ricordatevi di me».
Non mi sembra sia, neanche questa di Jeselnik, una descrizione esaustiva, ma non so come dargli torto.
Io, da parte mia, sui Social network, sul blog, su Facebook e su Twitter, cerco di non parlare dei disastri e delle cose di cui parlano tutti, o quasi tutti, ma di parlare di cose di cui non sa niente nessuno e che non interessano a nessuno, come le mie insignificanti giornate.
Ultimamente, per esempio, ho postato (anche questo, «postare», è un verbo relativamente nuovo significa pubblicare, o qualcosa del genere, credo) cinque pezzetti che mi permetto di copiare qua sotto.
Il 20 agosto: «Quando devo tradurre, come in questi giorni, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a scrivere. E quando devo scrivere, nei momenti che sono stanco e mi devo riposare, mi metto a tradurre. Come in quella frase di Manganelli: “Come staremmo bene qui, se fossimo altrove”».
Il 23 agosto: «Certi giorni ho la casa così in disordine che mi vien vergogna e allora la metto in ordine; ci metto qualche ora, e poi dopo, il mattino dopo, nella mia cucina pulita e ordinata, dentro una casa pulita e ordinata, mi viene in mente quella cosa che diceva Jurij Lotman che diceva che la vergogna è sintomo di intelligenza».
Il 25: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio usando la tecnica dello storytelling. È stato, finora, un pomeriggio che sono stato in casa a tradurre. E usando la tecnica dello storytelling lo racconterei così: questo pomeriggio, finora, sono stato a casa a tradurre. Questo era il mio pomeriggio raccontato con la tecnica dello storytelling. Arrivederci».
Il 26: «Vorrei raccontare la mia mattinata con la tecnica del narratore onnisciente. Un signore di una certa età, che abitava in provincia di Bologna, una domenica mattina, dopo aver lavorato per un paio d’ore (traduceva dei libri) aveva pensato “Adesso voglio proprio andare a correre”. E aveva smesso di tradurre era andato a correre. Questa era la mia mattinata raccontata con la tecnica del narratore onnisciente. Arrivederci».
Il 27: «Vorrei raccontare il mio pomeriggio di ieri con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Ieri sono stato allo stadio Dall’Ara, a Bologna, a vedere il Parma contro la Spal, e è stata una partita bruttissima e commovente. Prima che cominciassero a giocare, hanno suonato l’inizio dell’inno della serie A, e io mi son chiesto se piace a qualcuno, al mondo, l’inno della serie A. E mi son risposto che non lo so. E poi il Parma ha perso. E io mi son chiesto, prima che il Parma perdesse, prima ancora che andasse in svantaggio, come mai mi commuove, il calcio. E mi sono risposto che non lo so. E che mi interessa, un po’.E questo era il mio pomeriggio di ieri raccontato con la tecnica dell’io narrante in prima persona. Arrivederci».
Ecco. E se si considera che social network (sono andato a vedere) significa «qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali», anche uno stadio, potrebbe essere un social network. Anche un partito politico. Anche una scuola, Anche una famiglia. Ma noi ci concentreremo sui social media. E la prossima volta parleremo di Twitter. Arrivederci.

[Uscito ieri sulla Verità]