Significa che vuoi un’altra birra?

martedì 10 Luglio 2018

Erano insieme da qualche mese quando lui comprò la casa di Shamrock Street dove viveva in affitto già da un po’. Lei vi si trasferì, riempì le stanze dei suoi costosi shampoo al miele e appese in giro vasi di edera e foto stampate su carta opaca. Ogni domenica prendevano la macchina e andavano a mangiare in un ristorante all’aperto sulla Laguna Madre: cestini di gamberetti e focaccine di farina di mais. Una sera lei gli disse: – Portatemi via tutto, ma lasciatemi l’Estasi.
Nora parlò a voce talmente bassa e calma che a Sonny il cuore si fermò nel petto. Le chiese: – Significa che vuoi un’altra birra?
– Significa che voglio sposarti.
Il vento sollevò delicatamente un lembo della tovaglia a quadretti rossi dal tavolo ad assicelle e subito lo lasciò ricadere, le onde sciaguattavano pesanti contro i piloni, l’odore di pastella, di pesce e di legno di cedro schizzato di acqua salata, quella sensazione divina di calore nel petto, simile a un raggio di luce che si rifrangeva attraverso un gioiello.

[Bret Anthony Johnston, Corpus Christi, traduzione di Federica Aceto, Torino, Einaudi 2018, pp. 5-6]

I nomi delle strade

martedì 1 Maggio 2018

nino

Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi,
son dei papi,
di quelli che scrivono,
che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere
via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio
via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso
sopra una cavalla.
E pensare che il mondo
è fatto di gente come me
che mangia il radicchio
alla finestra
contenta di stare, d’estate,
a piedi nudi.

[Nino Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, Torino, Einaudi 2017, p. 19]

I partigiani

mercoledì 25 Aprile 2018

nino

I partigiani

Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.

[Nino Pedretti, Al vòusi e atre poesie in dialetto romagnolo, Torino, Einaudi 2007, pp. 17-18, la poesia si intitola I partigièn]

Ecco com’è

mercoledì 18 Aprile 2018

ecco com’è signorina, in questo consiste la passione dei poeti per le sbronze e la meditazione, e quando poi la situazione si fa disperata, i cieli si spalancano e l’idea si arrampica con la sua manina fino a raggiungere la luce, e io con la pala rivoltavo quel malto scatenato, e per prima cosa avevo dovuto spalarlo a ventaglio col volgemut, Socrate e Cristo non hanno scritto nemmeno una riga, e guardate un po’! il loro insegnamento è valido ancora oggi, mentre gli altri piú libri pubblica- no e piú sono degli sconosciuti, è la cospirazione della storia, io una volta avevo fatto a gara con un saponaio nel salto a testa in giú dal biliardo e ero stato io il vincitore, certo alla fine la testa ce l’avevo bella piena di bozzi e bitorzoli, poi avevamo fatto di nuovo l’Ingresso trionfale di re Faruk, tutte le sventolone del locale ci avevano partecipato, ma poi si era messo a armeggiare Olánek, quella carogna che commerciava in mobilio vecchio e in quadri, una volta era arrivato con un quadro e ci aveva fatto un buco proprio all’altezza dell’occhio della Vergine Maria, poi aveva preso l’occhio di una carpa e l’aveva incastrato dentro fissandolo dall’altra parte col cerotto e l’aveva venduto a certi ungheresi che stavano nel cortile, e loro avevano attaccato la Vergine alla stufa, e una volta che stavano lí a pregare se n’erano scappati tutti fuori di corsa, che la Vergine Maria stava piangendo per loro, ma venne a galla il fatto dell’occhio della carpa attaccato col cerotto, per cui quella carogna, quell’Olánek, aveva portato un asino al Tunnel, dove intanto alcune sventolone mi avevano spogliato e mi avevano fatto indossare una sottoveste, sulla testa mi avevano piazzato un turbante e la faccia me l’avevano pitturata coi colori a smalto, e loro poi se n’erano andati in giro per le osterie con quell’asino e con me, e eravamo appena stati sbattuti fuori dal Grandhotel in- sieme a quel nostro Ingresso trionfale di re Faruk quando Olánek, quella carogna, aveva fatto annusare all’asino del pepe e lui mi aveva disarcionato, ma anche cosí ero io il vincitore, ero andato poi al giardino zoologico, indossavo un bel completo che avevo ereditato da uno che c’aveva le gambe cosí storte che i vestiti doveva farseli cucire su misura, ma per il resto mi cadeva a meraviglia come a Miss Venus, per cui me ne sto allo zoo davanti alla gabbia del leone e il leone all’improvviso aveva avuto tutto un fremito e appresso un sibilo! e giú una pisciata da mezzo litro, e me la spiaccica come brillantina sopra ai capelli, riuscendo poi ancora a innaffiare due slovacche, per una settimana mi ero dovuto riempire di profumo, tanto era lo spuzzo, le sventolone del City dancing, loro continuavano a annusarmi e drizzavano
le orecchie, non è che magari ero stato da qualche parte con delle altre?

[Boumuil Hrabal, Lezioni di ballo per anziani e progrediti, a cura di Giuseppe Dierna, Torino, Einaudi 2018, pp. 75-77]

Vengono da tutto il mondo

domenica 15 Aprile 2018

In un libretto intitolato Bohumil Hrabal spaccone dell’infinito, c’è una conversazione tra Hrabal e alcuni suoi conoscenti.
Tra questi c’è anche il birraio della birreria di Praga U zlatého tygra (Dalla tigre d’oro), che dice: «La Tigre d’oro è come il terzo domicilio di Hrabal. Il primo è il suo appartamento, la seconda è la casa di campagna, il terzo è la Tigre d’oro. Tutti i giorni, da lunedì a giovedì. Vengono da tutto il mondo per farsi fare una dedica».
Qui Hrabal racconta, tra le altre cose, come scrive: «Quando non scrivo, è allora che scrivo di più. Quando passeggio, quando cammino, quando faccio un monologo interiore, quando assorbo non solo quello che sento e che è interessante ma anche ciò che matura dentro di me». Poi batte a machina, e dopo aver battuto a macchina «prendo le forbici – è questo il momento più bello – taglio tutto, e lo assemblo, prendo i fogli e metto all’inizio quello che c’era alla fine. Lavoro come un regista nella sala di montaggio, poi lo incollo tutto insieme e vado avanti finché non è finito. E allora di nuovo esco e vado in giro per le birrerie, è solo nella taverna che i discorsi si muovono».
Sembra frutto di questo procedimento di maturazione e montaggio Lezioni di ballo per anziani e progrediti, che, per la cura di Giuseppe Dierna, viene ora proposto da Einaudi nella collana Letture.
È il terzo libro di Hrabal, uscito, in origine, nel 1964, pochi mesi dopo i primi due, per la casa editrice Československý spisovatel (Lo scrittore Cecoslovacco), ed è il monologo di un vecchio calzolaio praghese, al quale «Baťa in persona» aveva spedito il decreto di nomina «perché lavorassi da lui, perché rimettessi in piedi la sua ditta».
Tomàš Bat’a è il fondatore della celebre azienda calzaturiera, un signore che raccomandava ai suoi impiegati di non leggere romanzi russi, e che aveva fatto scrivere sul muro del gommificio, a caratteri cubitali: I ROMANZI RUSSI UCCIDONO LA GIOIA DI VIVERE.
Questo vecchio calzolaio aveva fatto anche il maltatore, cioè l’addetto al maltaggio nella produzione della birra, e il soldato «nel più bell’esercito del mondo», l’esercito austriaco quando l’Austria era l’Impero austroungarico e Praga era una città austroungarica, ma la sua passione sono le belle donne, che lui chiama Sventolone.
Di sé ci dice che, quando era giovane, «avevo un’energia che da sola sarebbe bastata a illuminare Praga per un’intera settimana»; erano tempi in cui «non c’era la televisione, per cui le persone si dovevano fare ogni cosa da sole, ivi compresa la radio». «All’emporio avevo visto una serie di flaconcini marca Peru Tannin che favorivano la crescita rigogliosa dei capelli, – racconta il calzolaio – sulle bottigliette c’erano le due figliolette del suo inventore con i capelli fin oltre le caviglie, bisogna però dire che l’Austria non ci teneva neanche così tanto a una rigogliosa crescita dei capelli quanto invece ad averci un seno rigoglioso, alcune ce ne avevano così tanto da essere costrette a portare sulle spalle uno zainetto con dentro un mattone, per non precipitarsene tutte in avanti, tale era la forza di trascinamento, erano davvero qualcosa di straordinario quelle grazie enormi». Alle sventolone il calzolaio si prendeva la licenza di fare delle scarpe rosse di coppale, anche a quelle che avevano un occhio di vetro, «e questa non è una cosa piacevole, perché poi voi non sapete quello che ci può combinare lei con quell’occhio, un cappellaio mi aveva detto che era stato al cinematografo con una tipa del genere, quella aveva starnutito e l’occhio le era volato via, e durante l’intervallo avevano dovuto cercarlo sotto alle poltrone, e quando poi lei l’aveva ritrovato gli aveva dato una lustratina, aveva sollevato la palpebra, e zappete! una strizzatina dell’occhio ed era fatta». Il calzolaio, però, non si era mai sposato, perché «io per il matrimonio non ho tendenze criminali sufficientemente sviluppate».
Racconta Derna che pochi mesi dopo l’uscita del libro (che fu, insieme ai due che l’avevano preceduto di pochi mesi, «un successo senza precedenti», con 60.000 mila copie vendute in poco tempo), alla casa editrice era arrivata una lettera firmata Antonín Šebek, dottore in medicina, che diceva che lui, tempo prima, aveva lavorato in un manicomio, e avevo trovato il quaderno d’un paziente, e l’aveva letto. «E lí dentro c’erano parole affastellate senza alcuna logica o senso, proprio come nel libriccino di Hrabal». « Adesso, – scrive Šebek – dopo aver letto le Lezioni di ballo, rimpiango parecchio di non aver offerto alla casa editrice Československý spisovatel quella creazione letteraria, Quale gigantesca perdita ha patito la letteratura ceca, o forse la letteratura universale, quando ho gettato il quaderno nel cestino della carta straccia!».
Ecco, io, dopo aver letto Lezioni di ballo, sono d’accordo col dottor Šebek, una gran perdita.

[Uscito ieri su Tuttolibri]

Un solo esempio

lunedì 12 Febbraio 2018

Un solo esempio. Le camicie con le maniche corte. Milioni di persone le portano. Io non le sopporto. Le camicie con le maniche corte. Ma che camicie? sono mutande. Non è una battuta. Prendete uno in mutande e con una camicia con le maniche corte. Sono due paia di mutande, uno sotto e uno sopra. Dice: ma quand’è caldo. Cioè, quand’è caldo vai in giro in mutande? E poi cosa c’entra il caldo? ti rimbocchi le maniche, quand’è caldo.

[Raffaello Baldini, In fondo a destra, in Carta canta Zitti tutti! In fondo a destra, Torino, Einaudi 1998, p. 125]

[Ancora] La neve dell’anno passato

domenica 11 Febbraio 2018

Angelo Maria Ripellino, Saggi in forma di ballate

Procùrati carta da macchina
prendi un foglio dopo l’altro
e copri il tavolo
la sedia
il termosifone
il pavimento
tutto ciò su cui
può stendersi un pezzo di carta
sino a rendere bianca l’intera stanza
Poi adàgiati sul posto residuo
copri te stesso
chiudi gli occhi
e col pensiero alla neve dell’anno passato
riposa un istante.

[Jiři Kolař, La neve dell’anno passato, citato in Angelo Maria Ripellino, Saggi in forma di ballate, Torino, Einaudi 1978, p.. 248-249]

Ecco qua

martedì 6 Febbraio 2018

Ogni topo di chiavica
appena nato naviga.

[Toti Scialoja, Versi del senso perso, Torino, Einaudi 2017, p. 98]

Ci giriamo tutti a guardare

lunedì 5 Febbraio 2018

Mangiamo i biscotti al bancone e parliamo. Senza dubbio Perry è bravo a parlare. Sembra un avvocato dinnanzi alla corte suprema. Poi, interrompendo una frase di quindici minuti, si rivolge al tipo dietro al bancone e gli domanda:
Questo posto è aperto ventiquattr’ore al giorno?
Sì, risponde quello.
Sette giorni alla settimana?
Esatto.
Trecentosessantacinque giorni l’anno?
Proprio così.
Allora perché ci sono delle serrature sulla porta?
Ci giriamo tutti a guardare.

[Andre Agassi, Open, traduzione di Giuliana Lupi, Torino, Einaudi 2011, p. 83]

Perché?

sabato 3 Febbraio 2018

Il tennis è lo sport in cui parli da solo. Nessun atleta parla da solo come i tennisti. I lanciatori di baseball, i golfisti, i portieri borbottano tra sé, ovviamente, ma i tennisti parlano con se stessi – e si rispondono. Nella foga di un incontro, i tennisti sembrano dei pazzi per la strada, che farneticano, imprecano e dibattono accesamente con il proprio alter-ego. Perché?

[Andre Agassi, Open, traduzione di Giuliana Lupi, Torino, Einaudi 2011, p. 12]