Ampedus sanguineus

sabato 10 Settembre 2016

Fredrik Sjöberg, Il re dell'uvetta, traduzione di Fulvio Ferrari, Milano, Iperborea

Anch’io ho avuto un amico molto caro negli anni della mia adolescenza. Thorbjörn Stärner (1958-1994). Pace alla sua memoria.
Quando la mamma mi telefonò sull’isola un afoso giorno d’estate per dirmi che Thorbjörn era morto in un banale incidente d’auto, il mondo mi crollò addosso. Rimasi dapprima sorpreso. I contatti si erano diradati negli ultimi anni. Entrambi ci eravamo fatti una famiglia e avevamo dei figli. Il destino ci aveva portato in direzioni diverse.
Solo quando non ci fu più capii appieno l’importanza della nostra amicizia. Fu il giorno più triste della mia vita. Nei tre anni in cui frequentavo il liceo di Västervik non c’era niente che potesse dividerci. Niente. Facevamo tutto insieme: andavamo a pesca, fotografavamo gli uccelli, suonavamo la chitarra e facevamo festa, catturavamo falene e, naturalmente, corteggiavamo le ragazze. E viaggiavamo: in Camargue, in Grecia, in Spagna, in Polonia, dappertutto, e sempre, qualsiasi cosa facessimo, parlavamo e parlavamo, ininterrottamente, della vita.
Una coppia male assortita, all’apparenza.Thorbjörn era alto due metri e soffriva di una traballante fiducia in se stesso; io ero lungo una spanna, borioso come un tacchino e piuttosto irritante. Ricordo le notti che abbiamo passato nella mia stanza, discorrendo fino all’alba proprio di ciò che determina il carattere di una persona e di ciò che è possibile formare da sé e indirizzare.
quanto litigavamo! Tutto è possibile, sostenevo io. Ti sbagli, replicava lui. Ma alla fine ci riconciliavamo sempre, e il giorno dopo partivamo alla ricerca di nuove avventure. E ora ero lì, solo alla mia scrivania, nella casa sull’isola, e piangevo. Inconsolabile.
All’improvviso sentii un leggero scalpiccio di piedi infantili. Mi voltai e incontrai lo sguardo del nostro figlio maggiore, che aveva allora sette anni. Dietro di lui c’era la sorellina. Tese verso di me il pugno chiuso, come fosse in attesa, poi lo aprì piano piano dicendo:
«Papà, guarda cosa abbiamo trovato.»
In mano aveva uno scarabeo, l’elaride rosso Ampedus sanguineus, uno dei pi belli. I bambini non mi avevano mai visto piangere. L’atmosfera in casa era stata cupa e pesante quel giorno, e loro si erano tenuti in disparte. Alla fine però non ce l’avevano fatta più. L’inquietudine li aveva spinti a correre fino a un ceppo marcio dove si erano messi a frugare fino a che non avevano trovato uno scarabeo. E ora eccoli lì, con una timida meraviglia nei grandi occhi spalancati.
«È per te.»
«Papà, sei un po’ contento adesso?»
Ancora oggi mi capita di mettermi a piangere quando vedo un Ampedus sanguineus, non so se per il dolore o per la felicità, probabilmente per un misto dei due.

[Fredrik Sjöberg, Il re dell’uvetta, traduzione di Fulvio Ferrari, Milano, Iperborea 2016, pp. 46-47]